Capitolo 2

3.3K 182 33
                                    

I polpastrelli del mio aggressore mi affondano nella guancia, facendomi male.

Lo percepisco premere sulla mia mascella, con la sua pelle ruvida.

Mi strattona a sé. «Viene definito clandestino, chi si introduce in una nave senza far parte del suo equipaggio» mi sussurra una giovane voce maschile all'orecchio. Il fiato è caldo, delicato come una carezza, e il suo tono non è per nulla intimidatorio, al contrario della forza che sta usando per immobilizzarmi. Forse sono finita tra le braccia di un ubriaco o di un pazzo.

«E soltanto per vostra informazione, è un reato verso il capitano e la sua ciurma. Dovrei mettervi in cella ma siamo ancora sulla terraferma, quindi deciderà il governo di Landa le sorti di una ladruncola come te».

Ladra? Ma come si permetteva? Io non avevo mai rubato nulla in vita mia. Se escludevo una delle dodici chiavi del palazzo di Farvel, ma ero stata costretta a farlo per fuggire da lì.

A me non importava di reati o di prigioni. Volevo soltanto evitare di essere catturata dai tre individui che mi cercavano al porto. Perché mi avrebbero riportata in un posto che per me era molto peggio di qualsiasi prigione esistente. 

Vorrei rispondergli a modo, ma con la bocca tappata non mi capirebbe. Gli mordo un dito, sperando di fargli abbastanza male da distrarlo.

Appena i miei denti gli affondano nella carne percepisco di nuovo quell'odore metallico e disgustoso. Ne sento il sapore in bocca e mi sale quasi un conato di vomito. Mi pento di ciò che sto facendo, ma credo sia l'unica soluzione. In tutta risposta lui mi stringe più forte con il braccio e si mette a ridere.

Quando premo di più con gli incisivi, lo sento trattenere un urlo e poi mollare la presa. Mi spinge lontano. Cado a terra per la sorpresa. Sento i muscoli delle braccia formicolare e faccio appena in tempo a mettere le mani davanti la faccia, per non sbatterla contro un barile.

Cerco di riprendermi subito e mi volto verso di lui, affinché non possa riafferrarmi di nuovo senza che io me ne accorga.

Il fascio di luce triangolare colpisce la sagoma di un ragazzo. Alto, almeno venti centimetri più di me. I capelli lunghi e castani, raccolti in una coda che gli ricade dietro il collo. Gli occhi scuri, impenetrabili come la notte fonda e arrabbiati. Delle flebili occhiaie li contornano come ragnatele. La pelle di qualcuno che è abituato a farsi baciare dal sole. La sua bocca è contratta in un'espressione stordita, incorniciata da una barba corta. Si tiene il dito morso tra le mani sporche di sangue. Anche la sua camicia ne è macchiata. Ne percepisco il liquido anche sul mio viso e vorrei pulirmi con la manica della camicia, ma mi trattengo. Come trattengo la voglia di sputare che mi sale direttamente dallo stomaco fino alla gola.

Le spade sulla cassa sono esattamente dietro di lui. Potrebbe prenderne una e trafiggermi. Oppure no.

«Ma sei matta?» sbraita «Ma che razza di contrattacco è? E se fossi stato morso da un ratto o avessi qualche malattia contagiosa? Adesso ce l'avresti anche tu».

«Ma sarai matto tu» replico nervosa «Tua madre non ti ha insegnato che non si aggredisce la gente senza motivo?».

I suoi occhi si spalancano al suono della mia voce, inscenando la medesima situazione stupita che avevo riscontrato quando avevo provato a parlare alla gente fuori da Farvel. Tutti sembravano trovarla strana, singolare. Un vecchio viandante le aveva addirittura affibbiato l'aggettivo di autentica. Ma non sapevo se era davvero così diversa dal normale, dopotutto io ero abituata al mio timbro.

«Chi sei?» mi chiede massaggiandosi i polsi, per poi riprendere a fissarmi in un modo autorevole che dovrebbe farmi paura. Ma non ci riesce. Ha qualcosa negli occhi, una sfumatura che li fa apparire da bambino. «Che ci fai sulla mia nave?».

Polvere di LuceDove le storie prendono vita. Scoprilo ora