Capitolo 5 - La scintilla

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Lilàh’s pov

I ragazzi giacevano sul terreno umido e a tratti fangoso nell'area circoscritta alla pozza acquitrinosa e maleodorante, avevano l’aria di essere davvero esausti e una pessima cera contornava il loro viso, che, inoltre, era contratto dal dolore date le punture di Vesmae. Per essere in quello stato, e non in uno di gran lunga peggiore, dovevano essere stati recenti vittime dei pungiglioni di quei esseri orripilanti.

Non avevano un gran aspetto da guerrieri, nemmeno quello dei più incompetenti. Io e il mio compagno procedemmo cauti nella loro direzione, sembravano disarmati e di conseguenza, a meno che possedessero non so quale affinità verso gli incantesimi oscuri – dato che la magia pura era riservata solo agli elfi e con un buon ascendente anche ai mezzelfi e di certo loro non appartenevano a nessuna delle due specie, non essendo dotati di orecchie a punta o leggermente appuntite e degli altri tratti caratteristici che ci distinguevano dai comuni umani – si potevano considerare per ovvie ragioni innocui, soprattutto per lo stato pietoso in cui palesavano.

Stavano entrambi ansimando e giacevano immobili nonostante la nostra presenza incombente che ci avevano fatto capire d'aver più che notato.
Il ragazzo che aveva mormorato il nome della nostra specie aveva gli occhi spalancati e increduli, temevo che gli potessero uscire fuori dalle orbite. In quelle iridi cristalline si poteva leggere chiaramente la sua espressione che passava dall'allibito, per il fatto che noi fossimo davanti a lui, allo stupore per la nostra presenza, a quanto pareva doveva essere un gran fanatico della nostra razza.
Il ragazzo di fianco a lui, in quel momento, teneva gli occhi chiusi come se volesse scacciare la nostra figura dalla sua mente e sperare di potersi teletrasportare in un qualsiasi altro luogo all’infuori di questo.

Ogni poro del loro corpo sembrava gridare terrore, si capiva dai loro sguardi. Temevano noi stranieri e noi viceversa temevamo loro. Si intuiva a colpo d'occhio che non erano di queste parti, come se attorno a loro alleggiasse un’aurea che portasse inciso il nome “Aitaken”. Le loro terre dovevano essere assai circoscritte e poco conosciute, forse citate solo in qualche vecchio tomo polveroso. Non ne avevo mai sentito parlare. Dovevano appartenere a una civiltà con costumi e usanze alquanto fuori dal comune, sfiorando addirittura il patetico e subentrando nell'eccentrico.

A un tratto l'umano che teneva gli occhi serrati ne aprì uno con una lentezza disarmante e ci fissò intensamente. Lo osservai incrociando le braccia sotto il seno e scoccandogli un'occhiata raggelante non capendo tutto questo teatrino per aver visto un paio di elfi. Eravamo una razza piuttosto nota in tutto Scorzeer e gli umani sapevano benissimo della nostra esistenza, addirittura alcuni parteggiavano per noi, mentre altri per quei rozzi nani, quindi proprio non comprendevo tutto questo sconcerto e questa maleducazione.

All'improvviso spalancò gli occhi esterrefatto, come se si fosse capacitato solo ora della nostra reale presenza, e avesse sperato che nel lasso di tempo che aveva chiuso gli occhi noi fossimo improvvisamente spariti e si fosse trattato tutto di un'allucinazione. Sì tirò a sedere di scatto, nonostante la smorfia di dolore che gli deturpò il volto e il gemito pieno di sofferenza che gli sfuggì dalle labbra. Si girò verso il ragazzo al suo fianco, l'espressione di prima che gli incorniciava il volto era rimasta immutata, sembrava caduto in uno stato di trance dettato dalla nostra inconcepibile eterea esistenza.

Gli toccò freneticamente il braccio. Le mani gli tremavano e iniziò a chiamarlo in una lingua che mi era nota. Era la lingua degli umani. Il nome “Bradley” riecheggiò nel silenzio opprimente del bosco. Il ragazzo ancora steso si svegliò grazie alle grida dell’altro.
Diresse il suo sguardo ricolmo di ammirazione verso di noi, mentre l'altro non fu altrettanto clemente.
«Siete quegli orecchie a punta che vedo nelle copertine dei libri di mio fratello?» Sibilò il ragazzo, mentre cercava di mettersi in piedi nonostante la smorfia contrita che gli attraversò il volto. Aveva un tono che non mi piaceva affatto.
E “orecchie a punta” a chi poi? Come osava essere così dispregiativo.
Forse nelle loro terre non era usanza adoperare le buone maniere verso gli estranei. Non ci diede nemmeno il tempo di ribattere che riprese subito il discorso.
«Al posto di starvene lì impalati potreste dirci il modo per tornare a casa» ululò come se fosse nostro dovere aiutarli.
Il nostro sguardo seccato e stralunato lo fece indignare notevolmente.
«CHICAGO» scandì come se fossimo degli stolti. «Avete presente grandi grattacieli, smog e il Michigan» continuò imperterrito.
Fu il mio miglior amico a prendere la parola.
«Primo, noi non siamo degli orecchie a punta ma elfi, ovvero la specie più rispettabile che abbia mai solcato queste terre. Secondo, sappiate che nei dintorni di questi boschi bazzicano numerosi briganti che non vedono di buon occhio i viaggiatori. Quindi vi consiglio di girare alla larga.» Aveva snocciolato tutto quel discorso a raffica. La sua freddezza era disarmante. Le labbra serrate in una linea dura.
«Ma come ti permetti elfo dei miei stivali!» Il ragazzo intrise veleno nelle sue parole e s'azzardò troppo.
«Ma come ti permetti tu a parlarci i in questo modo irrispettoso straniero! Ti conviene rimangiarti ciò cha hai detto se non vuoi ritrovarti infilzato con una freccia» l'apostrofai. «Sei un gran...»
Il ragazzo che fino ad allora era rimasto solo uno spettatore si decise a intervenire.
«Ehi! Datevi tutti una calmata.»
Alzò le mani in segno di resa e fermò il mio insulto sul nascere, se non l'avesse fatto avrei riservato al suo amico una delle peggiori parole che avessi mai rifilato a qualcuno.
Swon gli gettò un'occhiata curiosa per poi riportare l'attenzione sull’umano maleducato.
«Bene. Ora direi che il nostro incontro può aver fine. È durato anche troppo a lungo. Fate buon viaggio.»
Iniziò a camminare a testa alta conducendo il suo destriero per le briglie. Io guardai i volti perplessi dei due ragazzi, Swon era proprio riuscito a togliergli persino il fiato.

Trattenni un sorrisetto soddisfatto per poi imitare l'elfo che proseguiva veloce d'innanzi a me. Appurai che quella fosse stata un'esperienza alquanto bizzarra.
Camminavamo senza parlarci né tantomeno guardarci. Ognuno era assorto nei suoi pensieri quando sentimmo dei rumori disarmonici provenire dalle nostre spalle. Mi girai di scatto sfilando il pugnale dal fodero che portavo appresso al mio fianco destro - incoccare l'arco avrebbe richiesto troppo tempo -, producendo un tintinnio metallico che risuonò nell'aria. Il bianco e l'oro del pugnale risplendevano alla luce del sole provocando un bagliore quasi accecante. La punta leggermente ricurva sfiorava la giugulare del ragazzo davanti a me. Abbassai il pugnale quando riconobbi il volto dell'umano maleducato, con l'altro che stazionava dietro di lui. Un velo di paura solcava il volto di entrambi.

Anche Swon era in posizione d'attacco con la mano sull'elsa della spada pronto a sfilarla.
«Ancora voi? Ci state per caso pedinando? Non avete forse capito che noi non parliamo con chi ci manca di rispetto!» Sputò fuori rabbioso.
Mi stupii del suo comportamento. Era sempre stato una persona gentile e disponibile. Sembrava  infervorato, probabilmente il suo animo era ancora in tumulto per Sedrick. In fondo non aveva tutti i torti ad essere così ostile nei loro confronti, nessuno si può permettere di riservarci nomignoli dispregiativi. Non per atteggiarmi, ma la mia specie era da sempre nota per la sua sostanza, l'intelligenza e la classe.

Prese parola l’umano che aveva il busto coperto da un tessuto bianco. «Ehi tranquillo. Non volevamo offendere te e la tua ragazza.»
«Non è la mia ragazza» ribatté scocciato Swon.
«Quello che mio fratello intendeva dire è che non volevamo in alcun modo essere maleducati» disse pacato l’altro ragazzo tentando di calmare le acque. Rimasi stupita - senza darlo a vedere - nello scoprire che tra i due c'era un legame di sangue. Non si somigliavano e all’apparenza uno sembrava più prestante, istintivo e coraggioso, mentre l’altro aveva una figura più calma e intelligente, e pareva avere un carattere maggiormente introverso se paragonato al consanguineo.

«Non volevamo seguirvi, ma non abbiamo idea di dove siamo né tanto meno di dove poter andare. Non saremo affatto un peso, ovunque siate diretti.» La sua voce vacillò sulle ultime parole.
«D’accordo» risposi guardinga.
L’umano mi rivolse un sorriso grato mentre l’altro sbuffò leggermente, visibilmente infastidito.
Swon, con mio sommo dispiacere, fu quello che la prese peggio. Iniziò a sbraitarmi contro notevolmente adirato. «Lilàh, io e te stiamo facendo una ronda di ricognizione, non di soccorso! Passeremo grossi guai se non ritorneremo a breve!»
«Ma se eri tu il primo a volerli aiutare!» Protestai.
«Sì, aiutarli, non portarceli appresso.»
Presi il mio amico per il suo polso magro ma che conteneva un fascio di muscoli ben allenati. Iniziai subito a predicare con voce scongiurante, attenta a non farmi sentire dai due giovani che distavano solo pochi passi. «Io voglio aiutare quei poveri umani, mi fanno molta pena. Non mi potrei mai perdonare se gli succedesse qualcosa.»
Lui sembrava avere già pronta una risposta secca e concisa. «Li cureremo e poi ce ne andremo.» Sapevo esattamente come controbattere a quelle sue fredde parole.
«Noi siamo guerrieri, è nostro compito proteggere gli indifesi, spetta a noi aiutarli! Sei troppo diligente nel tuo lavoro. Tu più di tutti dovresti sapere come ci si sente a voler aiuto e non poterne ricevere.»
Pronunciai le ultime parole sperando che fosse in grado di leggere tra le righe. Volevo che capisse che quel comportamento non era degno del suo nobile carattere e lui prima di tutti avrebbe dovuto prestargli aiuto. A quanto parve ci riuscii.
«Fa come preferisci, li assisterai tu. Quelli non mi piacciono. Sono lontani i tempi in cui venivo deriso e la gente mi mancava di rispetto.»
Sospirai delusa dal suo atteggiamento.

Riportai la mia attenzione sui due fratelli e li osservai, notando che si reggevano a stento sulle proprie gambe, tremavano visibilmente. La loro pelle stava assumendo un colore cencioso e le labbra si stavano tingendo di una sfumatura bluastra. I pomfi violacei spuntavano vividi e pulsanti.
Il veleno era entrato in circolo e l’infezione ben presto avrebbe iniziato a peggiorare. Dovevo fare qualcosa, e alla svelta.

Stavo per aprir bocca e invitare i ragazzi a seguirci nella radura, quando l’umano con cui avevo conversato fino a poco prima cadde a carponi. Respirava affannosamente e dei fremiti gli sconquassavano il corpo ripetutamente. Il fratello fu subito al suo fianco visibilmente spaventato, notai che era messo poco meglio, ma cercava di resistere.
Mi riscossi e voltandomi verso Swon gli impartii di andare subito a cercare dei rami adatti con cui accendere un fuoco.
Successivamente appoggiai le mani delicatamente sulle spalle del ragazzo che sussurrava il nome del consanguineo con il terrore negli occhi, e gli intimai di stendersi.
Non c’era attimo da perdere.

Mentre controllavo dove si trovavano le punture sui corpi dei ragazzi – entrambi avevano le braccia martoriate, ma il ragazzo che stava peggio aveva un pomfo anche sul collo e la cosa mi allarmava parecchio –, fischiai, di un fischio lungo e melodico, un suono distintivo che il mio destriero identificò subito. Lo vidi trotterellare verso di me. Mi alzai dal loro capezzale e mi diressi alla destra della mia sella, la parte in cui tenevo i viveri e soprattutto le erbe curative.
Fortunatamente avevo tutto l’occorrente.
Corsi verso il primo alberò che mi capitò a tiro. Possedeva foglie abbastanza grandi da essere utilizzate come contenitori, ne staccai qualcuna. Successivamente recuperai una mezza dozzina di fiori di luna dalle mie scorte e con la lama iniziai a sminuzzarli sopra una delle foglie che avevo preso, ci aggiunsi qualche goccia d’acqua limpida che era rimasta dalla mia borraccia e vi formai una pallina che misi in bocca al ragazzo che ormai era privo di sensi e lo incoraggiai a mangiarla. Ripetei l’operazione con suo fratello che accolse il gusto dell’intruglio con una smorfia variopinta. Questa prima operazione avrebbe iniziato a combattere l’infezione sul nascere.
Posai contemporaneamente il dorso di entrambe le mani su ambedue le fronti dei ragazzi e non mi meravigliai quando sentii che scottavano, allorché agguatai due dozzine di fiori di luna e due decine di bluas, ne avrei fatto un infuso che fosse in grado di abbassare la febbre.

Poco dopo sentii in lontananza – grazie al mio udito da elfo – lo scalpitio di zoccoli, che però arrivava da una direzione differente da quella che aveva imboccato Swon. Senza pensarci un attimo brandii il mio arco, ed estrassi una freccia. Incoccai. Quando il rumore si fece più vicino, tesi la corda al massimo pronta a scoccare. Ma non lo feci. Il mio amico galoppava verso di me con portamento fiero. Abbassai l’arco, e riposi la freccia nella faretra, per poi issarmelo sulla schiena.
Quando il destriero dovette arrestare la sua corsa, sul mio volto si leggeva chiaramente tutta la confusione che provavo. L’elfo anticipò ogni mia possibile inquisizione.
«Ho fatto una deviazione verso il fiume più vicino e ho riempito la mia borraccia, ho pensato che potesse servirti altra acqua.»
Il mio sguardo colmo di gratitudine gli fece incurvare all'insù le estremità delle labbra.
Mi porse il mortaio di legno e il pestello che teneva ancorati alla sua sella e vi riposi all'interno l’acqua e i petali dei fiori.

Swon si era già messo all’opera per dare vita a lingue vermiglie. Predispose pochi piccoli ramoscelli, senza esagerare siccome sarebbe dovuto essere un fuocherello limitato – un grande falò sarebbe stato utile per cuocere della selvaggina, ma quando si trattava di zuppe e contenitori da immergere nel fuoco, era sempre meglio far nascere soltanto qualche piccola fiamma.
Il mio amico mi fu d'aiuto nello scaldare l’infuso.
C’era stato insegnato a cavarcela in situazioni come quelle. L’elfo era pronto e mentre teneva salda la ciotola, io mescolavo l’intruglio. Gocce di sudore colavano dalla sua fronte, lui era quello più esposto al bollente calore.
Quando l’acqua iniziò a prendere un colore variopinto seppi che ormai era pronta. Immersi un dito e constatai che era abbastanza calda.
Presi il mortaio dalle mani di Swon facendogli rilasciare un sospiro di sollievo. Si asciugò la fronte madida con la manica della camicia in un gesto veloce.
Il piccolo contenitore scottava, ma cercavo di resistere. Mi avvicinai ai due ragazzi che giacevano allo stremo delle loro forze. Sollevai la testa, prima all'uno poi all'altro, aiutandoli a bere.

Mentre il mio compagno alimentava il fuoco stava calando l’oscurità, e noi non potevamo muoverci. Dovevamo vegliare sui due umani ancora privi di sensi. Sarebbe stata una lunga notte.
Mi accertai che non avessero bisogno di nessun miscuglio che li aiutasse a dormire e sperai che la pozza acquitrinosa dove si erano tuffati non avesse peggiorato l’infezione.

Swon si stese a terra con le braccia sotto la testa. Io lo imitai sdraiandomi al suo fianco.
Volsi il volto verso di lui. «A cosa pensi?»
«Alle domande che ci faranno non appena torneremo» rispose, io sospirai sapendo che l’indomani sarebbe stata un’intensa giornata.
«Cosa risponderemo quando ci chiederanno chi sono e da dove vengono?» Mi domandò.
«Umani, diremo» affermai con ovvietà.
«Sai cosa intendo» lasciò in sospeso la frase per poi continuare, «sono vestiti in un modo alquanto strano e dicono di provenire da Chicai, un posto mai sentito prima.»
«Chicago» lo corressi.
«Il punto è che non esiste nessun luogo con quel nome, lo sappiamo benissimo entrambi» puntualizzò.
«Forse esiste ma non è ancora stato visitato da nessuno» ipotizzai.
«Lilàh» strascicò il mio nome con fare esasperato. «Non ti prendere in giro da sola.»
Tacqui non sapendo come ribattere, in fondo aveva ragione. C’era qualcosa di molto strano, qualcosa che mi sfuggiva, ma non avevo idea di cosa fosse.

Rimanemmo lì, ad osservare il cielo tingersi dei colori del tramonto, sfumature color iris si mischiavano a quelle più scure del ceruleo spento e triste, mentre ognuno era immerso nei propri pensieri.
Rimasi lì a contemplare quel gioco di colori mentre infinite preoccupazioni vagavano nella mia testa. Riflettevo su quei due sconosciuti e mi crucciavo per la ramanzina che ci avrebbe aspettato l'indomani da parte degli Antichi elfi.
Realizzai che non c'era rimasto sufficiente cibo per sfamarci, allorché decisi di andare a procurarcene. Mi levai in piedi e rivolsi un’occhiata di sbieco al mio compagno. «Vado a caccia» pronunciai secca.
«Segui il percorso da dove sono tornato, ho sentito il bramito di alcune gazzelle» disse.
Feci un cenno di assenso e m’incamminai verso quella direzione.

I miei passi leggeri sfioravano il coltre manto smeraldino, l’erba era alta e rigogliosa.
Tenevo le orecchie ben tese e badavo bene a dove mettevo i piedi per fare il minor rumore possibile.
A un certo punto captai il bramito di una gazzella poco lontano da me. Mi avvicinai e lo vidi. Osservai il bellissimo esemplare maschio in tutta la sua regalità, era di medie dimensioni e stava brucando l'erba totalmente ignaro del pericolo che stava incombendo su di lui.
Estrassi cautamente l’arco e con movimenti lenti e precisi sfilai un freccia dalla faretra. Incoccai tendendo al massimo la corda di canapa. Presi la mira puntando alla testa. Scoccai. Il sibilo prodotto mi sfiorò la guancia e riverberò nell’aria, l'animale se ne accorse troppo tardi. Era già riverso a terra e una piccola pozza di sangue si faceva largo sulla coltre erbosa, macchiando i ciuffi leggiadri.
Mi avvicinai e divelsi dalla testa la freccia accertandomi che fosse ancora intatta.

Iniziai a trascinare la gazzella per le zampe, era troppo pesante per caricarmela sulla schiena.
Con non poca fatica ritornai nel luogo dove stazionavamo precariamente. Appena mi vide, Swon corse ad aiutarmi e s’issò la mia preda su una spalla.
Ripresi fiato.
Sistemò la carcassa vicino al fuoco e io mi armai del mio pugnale appeso alla cintura per iniziare a scuoiare l'animale. Quando terminai il mio lavoro iniziai a dividere la carne in pezzi, per poi infilzarla con dei rami e metterla a cuocere avvolta in grosse foglie verdi che avevo precedentemente trovato, in quel modo sarebbe rimasta più protetta.

Quando la nostra succulenta cena mi parve cotta la allontanai dal fuoco e ne offrii un bel pezzo a Swon. Lui iniziò a gustarselo e mi ringraziò con un cenno del mento.
Nel frattempo i due umani si erano destati, probabilmente per via dell’odore acre del fuoco mischiato al profumo della carne abbrustolita.
Il ragazzo di cui non conoscevo ancora il nome mi regalò una smorfia quando gli passai il suo pezzo dalle dimensioni notevoli. Lo afferrò con entrambe le mani con fare impacciato.
«Io dovrei mangiare questa cosa?» Domandò schizzinoso.
«Preferivi brucare l’erba?» Ribattei stizzita.
«Non mangi la carne?» Chiese stupito Swon.
«No no, mangiamo la carne, e quello che avete cucinato va benissimo, ha un ottimo aspetto» rispose Bradley lanciando un’occhiata a suo fratello che non seppi decifrare.
«Io non…» Iniziò l’altro umano, ma venne interrotto prontamente dal suo consanguineo.
«Sheldon mangia» lo redarguì perentorio. Non seppi mai cosa stesse per dire, ma in compenso ora conoscevo il nome di ambedue.

Mangiammo tutti nel silenzio più assoluto con solo il fuoco crepitante a tenere viva l'atmosfera. La notte era giunta e tutte le altre forme di vita si erano ormai rintanate per riposare.
Quando finimmo il pasto mi rivolsi ai due. «Quindi vi chiamate Sheldon e Bradley» pronunciai indicando prima l’uno e poi l’altro.
«Sì, è così» mi rispose quest’ultimo.
«Non sappiamo i vostri nomi invece» appurò il fratello. «Come vi chiamate?»
«Io sono Lilàh, mentre il mio amico si chiama Swon.»
«Non avevo mai sentito dei nomi del genere» sentenziò Sheldon.
Alzai le spalle e cambiai discorso. «Come vi sentite?»
«Molto meglio, grazie» rispose sincero l’umano - che mi continuava a stare meno simpatico dell’altro -, mentre si controllava i pomfi notevolmente migliorati.
«Sicuramente dovrete bere ancora dell’altro infuso perché vi riprendiate del tutto» constatai. Mi voltai verso Bradley che non mi aveva ancora risposto.
«Sono migliorati, sì. Ma quello sul collo mi fa ancora un gran male» disse preoccupato.
Mi avvinai a lui e controllai il pomfo, dovetti trattenere una smorfia nel notare che più che migliorare sembrava degenerare. L’acqua acquitrinosa in cui si erano immersi doveva aver peggiorato la situazione. Avrei dovuto cicatrizzarlo ma non mi sembrava un’ottima idea, i due ragazzi parevano già abbastanza spaventati.
«Allora?» Domandò Bradley in trepida attesa.
Lanciai uno sguardo veloce al fratello che, con un’espressione vacua sul viso, si era perso a guardare le lingue di fuoco crepitanti.
Lo feci.
Una scintilla dorata si levò dalle mie dita. Fu un attimo. Il bagliore svanì e il pomfo era migliorato notevolmente.
Swon che se n’era accorto mi lanciò un’occhiata ammonitrice. Non avrei dovuto farlo. Potevo essere scoperta, lo sapevo.
Lo ignorai e risposi al ragazzo che ancora aspettava. «Tranquillo, va molto meglio, vedrai che ti farà meno male.»
Lui mi sorrise grato.
Tornai al mio posto con ancora il mio amico che mi osservava.

Presi parola spezzando il silenzio. «Quindi siete fratelli.»
«In realtà siamo gemelli» mi rispose Sheldon. «Gemelli eterozigoti per la precisione.»
«In effetti non vi assomigliate per nulla» esordii.
Un sorriso sbieco solcò il volto di entrambi, come se si fossero persi in qualche ricordo.
Io e Swon ci voltammo a guardare il fuoco bruciare gli ultimi avanzi, non ci sarebbe rimasto nulla fino al midollo. Dopodiché saremmo partiti alla volta dei Boschi Mindri.

Un fumo acre si levò dai resti del falò, strane forme grigie indistinte presero vita nell’aria fresca della notte.
Mi fermai un attimo a osservarle, sembravano quasi che stessero raccontando una storia.
Mi rivolsi ai ragazzi. «È ora di partire. Il buio sta diventando sempre più fitto. Giungeremo a casa all'alba.»
«Voi dove abitate?» Chiese Bradley.
«Ai Boschi Mindri» rispose Swon.
L’espressione del ragazzo sembrò vacillare ma non disse nulla. Nemmeno suo fratello osò interromperci con qualche frase inopportuna.
«Sapete cavalcare?» Domandai.
Bradley negò con la testa osservando con timore reverenziale i nostri destrieri mentre Sheldon annuì.
«Allora Sheldon monterà Mièl con Lilàh e Bradley cavalcherà Ildirim con me» propose Swon.
Assentii per poi avviarmi assieme all'umano verso la mia giumenta.
M’issai con un movimento leggiadro sulla sella e Sheldon mi imitò impacciato.
Quando constatai che anche Swon e Bradley furono pronti partimmo al galoppo, sfrecciando tra gli alberi, schivando rami e saltando tronchi.
L’erba frusciava al nostro passaggio, non sembravano esserci pericoli in questa notte priva di stelle.
La luna splendeva bianca, come un faro in mezzo al buio più nero.

A un certo punto sentii Sheldon stringermi i fianchi e appiccicarsi alla mia schiena, forse per paura di essere sbalzato via. M’imbarazzai e non poco, sentii le guance scaldarsi, sicuramente una leggera tintura rossastra colorava le mie gote. Fortunatamente la notte mi proteggeva da sguardi indiscreti.
Il mio cuore pompava a un ritmo serrato, e non seppi se fosse per l’adrenalina della corsa frenetica o per l’azzardata vicinanza del ragazzo.

Continuammo a macinare terreno indisturbati, eravamo noi l’unica fonte di rumore.
Ci stavamo avvicinando quando le prime schiariture fecero capolino sul manto sopra le nostre teste.
L’alba stava sorgendo e davanti a noi si stagliavano i Boschi Mindri.

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Angolo autrici:
Hey wattpadiani siamo tornate!
Tranquilli non siamo sparite ma abbiamo revisionato i capitoli precedenti e questo ha richiesto svariato tempo!
Comunque eccoci qui con un capitolo di 3870 parole!
Buona lettura!

The Scorzeer series - L'inizio del viaggio #Wattys2018Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora