Lilàh's pov
Imponenti alberi dalle cortecce rugose ci bloccavano il passaggio, folte fronde dalle sfumature verdeggianti creavano un tetto ombreggiante impenetrabile. Quei tronchi erano il fulcro dei Boschi Mindri: querce, faggi, carpine, robinie e olmi stazionavano lì da prima che gli elfi popolassero queste terre, avevano radici solide e ben piantate nel terreno.
Un'antica magia circondava questo luogo, un incantesimo di protezione avvolgeva i suoi confini.
Non si poteva entrare in alcun modo. Dovevamo aprire il passaggio.
Io e Swon smontammo da cavallo e ci posizionammo di fronte a due rovere, sembravano uguali a tutte le altre e si potevano confondere facilmente con delle querce.
Avevano una chioma più aperta e rami più dritti e nodosi che formavano una corona intorno al capo, le foglie erano decidue – tendevano verso il basso come i salici piangenti -, erano di forma ellittica e leggermente arrotondata, con la parte superiore di un verde intenso e lucido, mentre l’inferiore si presentava più pallida. I loro tronchi robusti e slanciati erano ramificati solo nella parte superiore.
Un piccolo simbolo in rilievo su quest’ultimi permetteva di identificarle, solo chi sapeva cosa cercare l'avrebbe trovato e solo gli occhi attenti degli elfi l'avrebbero scovato.
Sostavamo in posizione eretta quando un fascio di luce baciò i nostri volti, così, in un gesto disinvolto ma deciso, colpimmo il terreno con la pianta del piede. In questo atto ci concentravamo sulla nostra anima, sul nostro io interiore, sulla nostra essenza, su ciò che eravamo e che saremmo stati, facevamo fuoriuscire la nostra energia e cercavamo di trasmetterla alle rovere, ai Boschi Mindri, come se il nostro spirito stesse già varcando la soglia.
L'incantesimo richiedeva non poca pazienza e non finiva lì, non era di certo adatto per chi fuggiva da nemici e cercava di rifugiarsi in un posto sicuro, ma in fondo uno dei doveri principali degli abitanti dei Boschi Mindri era quello di non condurre nemici all’interno di essi.
Riconoscendo noi altri come elfi, il passaggio si sarebbe aperto, gli alberi si sarebbero mossi permettendoci così di percorrere il sentiero e continuare il nostro viaggio verso casa.
Se il bosco non riconosceva come idoneo chi tentava di entrare, o avvertiva un qualunque genere di pericolo, i rami si sarebbero infittiti così da ostacolare ogni sorta di nemico.
Fungevano da barriera protettiva.
Gli elfi che vivevano nei Boschi Mindri erano protetti da quei possenti arbusti, e riuscivano sempre a percepire ciò che avveniva al di là dello “scudo”.
Dopo poco sembrò che gli alberi si diradassero aprendo così un piccolo varco. Dovevamo sbrigarci, se avremmo impiegato troppo tempo si sarebbe richiuso all’istante, cosicché da evitare il passaggio di eventuali nemici al seguito.
Rimontammo in sella ai nostri destrieri e con un colpo di tallone li spronammo a ripartire. Veloci e leggiadri ci infiltrammo nella coltre di legno e foglie.
Trottammo lungo il sentiero, in verità non percorrevamo nessuna strada precisa. Era un'altra sorta di barriera secondaria - come nei castelli c'era la prima cerchia di mura, ma anche la seconda come ulteriore difesa.
Occhi esperti sarebbero stati in grado di riconoscere la giusta via da percorrere. Il sentiero era segnato da foglie ingiallite adagiate sul terreno. Chi non avesse saputo cogliere l'occasione si sarebbe perso continuando a vagare fino ad essere corroso dalla fame e dalla sete. A questi toccava una fine lenta e dolorosa. L'aria si sarebbe rarefatta e infine non sarebbe rimasto altro che aspettare che la morte li abbracciasse.
Avanzavammo cauti, attenti a non perdere la via, finché non raggiungemmo l’ultimo ostacolo. Dietro alle tre file fitte di olmi, che non permettevano di vedere null’altro, giaceva il fulcro della vita dei Boschi Mindri.
Giorno e notte posizionate tra le folte fronde della flora dei boschi, posteggiavano silenziose le Guardie elfiche, sempre con gli archi imbracciati pronte a scoccare al minimo rumore sospetto.
Quella linea – che di una linea aveva ben poche caratteristiche – era un punto che si trovava dove stazionavano le carpine. Sennonché non erano piante comuni. Difatti a causa di un incantesimo le loro foglie erano più grandi, lucenti, dentellate e con strane venature in rilievo. Logicamente a un qualunque essere umano sarebbero sfuggite queste caratteristiche, ma non a noi elfi.
Oltretutto quegli alberi ospitavano sulle proprie foglie innumerevoli bruchi bianchi e pelosi.
Stazionavamo lì, fermi, nel mentre osservai l'umano seduto dietro di me da sopra la mia spalla sinistra. Aveva la testa a ciondoloni e si era appoggiato come un sacco colmo di patate sul mio corpo. Il suo peso massiccio incombeva sulla mia esile figura. Il fratello era nelle stesse condizioni, dovevano aver perso conoscenza. Ma a cosa era dovuto? Forse alla loro bassa resistenza? La mia prima impressione si rivelò dunque errata. All'apparenza – solo all'apparenza – si mostravano come due giovani uomini forti. Probabilmente mi stavo facendo troppe paranoie, e avrebbero dovuto bere solo più infuso. Chissà se gli si era abbassata la febbre? Avrei dovuto controllare il prima possibile. Troppe domande si affollavano nella mia mente, pensieri che si ammassavano l’uno sull’altro e ipotesi senza né capo né coda. Avevo bisogno di riposte, e al più presto.
«Himagui!»
Ci avevano appena permesso di avanzare. Procedemmo a un passo cadenzato fino ad arrestarci a pochi passi dalla coltre di olmi.
Due elfi scesero veloci dagli alberi, saltando sui rami fino a raggiungere quelli più bassi, per poi atterrare sul suolo con un balzo leggiadro.
Si misero di fronte a noi, le lunghe spade nel fodero portavano inciso sull'elsa lo stemma delle Guardie elfiche, un albero circondato da una libeyis non completamente sbocciata – una comune rosa nella lingua degli umani. Sopra la camicia portavano una casacca con cucito all’altezza del cuore lo stesso emblema impresso sulle spade.
«Chi siete?» pronunciò l'elfo dai lunghi capelli biondi - quando intraprendevano la carica di Guardie non potevano tagliarli al di sopra del petto -, due occhi di un azzurro sgargiante e un naso aquilino.
Nonostante sapesse benissimo chi fossimo, il codice delle Guardie elfiche imponeva che la prima cosa da chiedere a chi superava le barriere e voleva entrare in quel luogo era la propria identità.
«Sono Lilàh Règal abitante dei Boschi Mindri.»
«E io sono Swon Zug, anch'io abitante dei Boschi Mindri.»
Le nostri voci erano squillanti e prive del benché minimo tentennamento.
Valaris – così si chiamava l’elfo – ci scrutò attentamente, ma soprattutto osservò guardingo i due poveri umani svenuti contro le nostre schiene.
Prese parola Malaris, l’altro ragazzo. Erano gemelli e si assomigliavano sia nel nome che nell’aspetto, costui però, a differenza del primo, che aveva un fisico asciutto e slanciato, aveva una corporatura più mascolina e ben piazzata. «Allora Lilàh e Swon», marcò appositamente i nostri nomi, «qual è il motivo del vostro ritardo, considerando che il vostro turno di ricognizione prevedeva che tornaste entro il calar del sole?»
Fui io a rispondere. «Abbiamo incontrato questi due giovani umani, erano stati attaccati da un gruppo di vesmae nella boscaglia di Mandur, li abbiamo soccorsi e portati in salvo.» Presi fiato e continuai. «Si erano persi e li abbiamo aiutati. Sono innocui.» Omisi appositamente da dove venivano – dato che in realtà non sapevamo esattamente dove si trovasse il loro villaggio, sempre che fosse un posto vero e non stessero semplicemente delirando.
L’elfo mi guardò scettico, ma io alzai il mento all’insù in segno di sfida, non credo proprio volesse contraddire un gesto di salvataggio a due umani bisognosi, considerando che era fondamentale mantenere i buoni rapporti con loro.
Valaris osservò il fratello che ostentava mutismo, e poi emise un lungo sospiro. «E va bene, siete liberi di proseguire» ci concesse.
Un piccolo sorriso prese forma sul mio volto ma cercai di contenermi, stavo per spronare il mio cavallo a ripartire quando Malaris ci interruppe, non era della stessa idea del gemello. «Non così in fretta, i due umani passeranno la notte in cella in attesa di chiarimenti.»
«Non sappiamo nulla di più, non c’è bisogno di alcun chiarimento» protestai.
«Sì, invece. Non è chiaro da dove provengono e finché non lo sapremo potrebbero rivelarsi un eventuale minaccia per il nostro popolo», fece una smorfia per poi continuare, «potrebbero essere delle spie mandate dai nani» ipotizzò, poco convinto di ciò che aveva appena affermato.
Digrignai i denti furiosa, stava mettendo carne al fuoco per nulla.
«Sono svenuti quindi è ovvio che non possono chiarire da dove provengono» obbiettai.
«Fintanto che lo saranno rimarranno in gattabuia» concluse. «Intesi Lilàh?» Sapeva benissimo che mi sarei dovuta mordere la lingua per non ribattere in malo modo. Era sempre stato così, voleva dimostrarsi superiore a chiunque - solo per il ruolo che svolgeva, e tutti dovevano fare ciò che voleva lui -, mentre l’unica cosa in cui era superiore era l’ego smisurato che possedeva.
Mi morsi la guancia e annuii, non mostrando la mia sconsolazione per non dargliela vinta.
Malaris fece un cenno al gemello e si avviarono verso di noi, presero l’uno Sheldon e l’altro Bradley, se li caricarono sulle spalle come se fossero sacchi di patate. Forse pensavano che pesassero di meno considerando lo sforzo che stavano facendo per trasportali. Gli tremavano le gambe per il considerevole peso, quello più in difficoltà era Valaris. Con un colpo di speroni invitai Mièl a ripartire al passo. Io e Swon cavalcavamo dietro i due elfi che ci facevano strada, avrebbero dovuto dire la parola magica dinanzi agli olmi su cui stazionavano prima del nostro arrivo.
Vi eravamo quasi di fronte quando a Valaris cedettero le gambe e rovinò al suolo. Bradley rotolò sull’erba e sulle foglie secche fermandosi poco più avanti.
Il gemello preso alla sprovvista rimise Sheldon a terra per andare ad aiutare il consanguineo. Io mi portai una mano davanti alla bocca per soffocare una risata, ben gli stava. Swon era piuttosto sconvolto, mai in vita sua aveva visto una scena del genere, questo avrebbe ferito parecchio l’orgoglio delle nostre due Guardie.
Ciò che mi sorprese alquanto fu vedere gli occhi di Bradley che si aprirono lentamente – svegliato probabilmente per lo scontro inaspettato che aveva avuto col terreno -, era completamente spaesato. Alzò leggermente il capo guardandosi intorno. Ci aveva appena individuati, corrucciando la fronte confuso, quando Malaris, che se n’era accorto, sfilò la spada dal fodero e gli calò il pomo dell’elsa sulla testa. Il ragazzo, che ebbe un solo istante per decifrare cosa stava per accadere e spalancare gli occhi, svenne per il colpo.
Rimasi completamente esterrefatta, mai avrei creduto che l’elfo avrebbe potuto compiere un simile gesto. Capisco che li considerasse dei prigionieri e non nutrisse una particolare simpatia per loro, ma ciò che aveva fatto era da sconsiderati e avventati, un affronto bello e buono.
Quello più sgomento di tutti era il fratello - probabilmente non lo credeva capace di un simile gesto -, lo guardava come se non credesse a quello che i suoi occhi avevano appena visto.
“Uh prevedo scintille” pensai. E non ero la sola a cui era baluginato in mente quel pensiero, Swon li guardava in trepida attesa, come se da un momento all’altro avrebbero iniziato a darsele di santa ragione (per quanto fossimo un popolo calmo e ragionevole qualche azzuffata capitava pure a noi).
«Enaho!» Abbaiò Valaris contro il fratello, che gli rispose con un’occhiata di fuoco.
Dire a una persona “Enaho” era come darle del “pazzo”. Scegliendo di utilizzare quel termine aveva esplicitamente offeso il congiunto.
Malaris guardò duramente il gemello e gonfiò il petto in stile gozzuto. Sembrava sul punto di esplodere da un momento all’altro. I due iniziarono un battibecco in elfico che decisi di non ascoltare per dar loro un po’ di spazio. Portai, invece, la mia concentrazione su Sheldon. Dovevo ammettere che, tralasciando com’era agghindato, sembrava piuttosto muscoloso, le braccia apparivano robuste e le gambe toniche e longilinee. Probabilmente per essere di quella stazza doveva praticare la lotta corpo a corpo. Non aveva il benché minimo accenno di barba, la pelle era completamente glabra. Le labbra erano leggermente pronunciate, mentre il naso non presentava nessuna peculiarità. I capelli corvini erano piuttosto spettinati, con l’aggiunta di qualche filo d’erba e un paio di foglie rinsecchite a decorarglieli. Non riuscivo a intravedere le iridi, ma se chiudevo per un momento gli occhi e vagavo tra i miei ricordi, potevo riportare alla mente la loro tonalità. Mi ricordavano il colore delle ghiande appena cadute dall’albero, così intenso ma allo stesso tempo delicato, con degli screzi della sfumatura delle cortecce e delle foglie nella stagione dei fiori. D’istinto mi venne immediatamente da confrontarlo con il gemello. Avevano una foggia decisamente diversa. Il fisico ben piazzato era messo in risalto dalla pelle diafana, così pallida da sembrare che non avesse mai visto il sole. I suoi occhi erano di un azzurro cangiante e limpido, come si dica che fossero le acque dell’infinito Mare del Sud. I capelli erano uguali a quelli del gemello e pure nella loro stessa condizione penosa. Nonostante fosse meno alto del fratello e anche meno muscoloso, aveva il tipico aspetto esile ma resistente di chi praticava l’arte della spada. Malgrado la notevole tumefazione che gli sarebbe presto spuntata sulla fronte, aveva le labbra più sottili e il naso meno pronunciato di quello del fratello, inoltre un leggero accenno di barba gli incorniciava il viso. Era davvero un bel ragazzo.
Swon si schiarì in quell’istante la voce, riscuotendomi dai miei pensieri. I due elfi, che fino a quel momento avevano continuato a discutere, si interruppero per spostare la loro attenzione sul mio amico, che li guardò in tralice. Allorché ognuno dei due riprese il proprio umano, ovviamente non prima di essersi detti che non avevano ancora finito. Si diressero – stavolta facendo strisciare i due ragazzi sul terreno mentre li trainavano per le mani – ai due olmi. Io e il mio “compagno delle più stravaganti avventure” eravamo dietro di loro in sella ai nostri destrieri.
Quando si trovarono di fronte ai due alberi pronunciarono il suddetto termine.
«Hemmiant!»
Era la loro parola d’ordine e differiva per ogni coppia di Guardie elfiche.
Se i due partner non pronunciavano all’unisono la “parola d’ordine”, il passaggio non si sarebbe aperto. Questo metodo aveva un effetto collaterale, ovvero che qualora uno dei due sarebbe morto, il compagno ancora in vita perdeva la possibilità di usare il termine e doveva abbandonare il ruolo di Guardia elfica.
La “parola d’ordine” non veniva scelta a caso, l’accoppiata doveva avvicinarsi ai propri due olmi, appoggiare una mano sul tronco rugoso e mettersi in ascolto finché non avrebbero sentito un sussurro come se fosse trasportato dalle foglie, come se fosse il vento stesso ad averglielo impartito.
I due olmi si contorsero, si sentiva lo scricchiolio dei rami e le foglie volteggiarono per aria, lo spostamento fu lieve e lento. Erano alberi incantati e modificavano la loro forma affinché comparisse un piccolo passaggio, stretto, ma che comunque ci consentiva di passare senza troppa fatica.
Io e Swon avanzavamo nelle retrovie, mentre le due Guardie elfiche erano in testa, trascinando i due ragazzi, che una volta svegliati si sarebbero ritrovati tutti i vestiti sporchi e stracciati. Il passaggio si richiuse con diversi rumori sinistri e a terra si potevano notare una moltitudine di foglie variopinte, molte di più rispetto a prima. Io e Swon smontammo da cavallo con un balzo, da qui in avanti li avremmo condotti per le redini.
I due elfi si stavano già dirigendo verso le celle quando li fermai. «Hanno bisogno di bere altro infuso per abbassare la febbre e finire di contrastare l’infezione.»
«Non glielo hai fatto bere?» Mi redarguì Malaris.
«Ovvio che sì» controbattei, «ma non abbastanza, devono berlo più volte.»
«Per ora è sufficiente.» Mi rispose in malo modo. Lo guardai con disprezzo ma non desistette. «Di certo non moriranno» disse, «o almeno, non per ora.»
«Avrete un incontro con gli Antichi Elfi prima che il sole sia alto nel cielo e suoni la quotidiana melodia di flauto» proseguì, «decideranno loro cosa farne.»
Allentai la presa sulle redini per rispondergli a tono. Swon fece lo stesso, pronto a fermare sul nascere la mia sfuriata.
Il gemello anticipò ogni possibile azione.
«Ora è meglio che andate a riposare. Sarete stanchi» ci consigliò Valaris con un sorriso sincero.
Notando i miei nervi tesi, il mio amico mi posò una mano sulla spalla come segno di conforto. Aveva mani callose per i tanti anni di duri allenamenti e combattimenti, e con diverse cicatrici segno delle battaglie in cui aveva partecipato. Col pollice iniziò a fare dei movimenti circolari nell’incavo della mia scapola facendo così desistere ogni mio desiderio di ribellione.
Rilassai le spalle tese sotto il suo tocco leggero e delicato.
Malaris e Valaris proseguirono indisturbati verso le celle, continuando imperterriti a trainare quei due poveri umani. Diversi elfi iniziarono a notarli e a scoccare occhiate strane nella loro direzione – agghindati com’erano era impossibile che passassero inosservati. Taluni iniziarono pure a indicarli e a fare commenti sicuramente poco carini. Eravamo un popolo intelligente ma anche pieno di pregiudizi. L’espressione sul mio volto dimostrava tutto lo sdegno che provavo in quel momento.
Mi voltai verso il mio amico che mi osservava con quei suoi occhi smeraldini con tanto di pagliuzze dorate che ardevano di vita. Mi fissava con quel portamento fiero da vero guerriero, gli zigomi alti e il naso all’insù gli conferivano un’aria ancora più austera; ma io vidi che mi stava guardando con immensa dolcezza, con quelle efelidi sulle guance e i capelli che mi ricordavano il colore del miele tutti scarmigliati. Le sue labbra rosee si piegarono all’insù, cercando di darmi conforto. Io lo abbracciai di slancio. Gli avvolsi le braccia intorno alla schiena e posai la testa sul suo petto, ascoltando il battere ritmico del suo cuore. Lui mi circondò il busto con il braccio destro mentre con il sinistro mi accarezzava i lunghi capelli. Rimanemmo così finché non mi calmai del tutto. Sollevai di poco la testa e lo osservai da sotto le lunghe ciglia. Lui mi guardò e io gli sorrisi grata. Mi scoccò un bacio sulla testa per poi sciogliere quell’abbraccio che mi faceva sempre sentire protetta nei momenti più tetri, era il mio porto sicuro, la mia luce nell’oscurità, dove potevo rifugiarmi quando le tenebre si facevano più intense. Era quell’abbraccio che emanava calore umano e tanta dolcezza.
Swon iniziò a incamminarsi verso la propria abitazione tirando per le briglie il suo destriero. Io lo imitai e mi misi alla sua destra, avremmo fatto la strada insieme, in fondo abitavamo l’una accanto all’altro, e saremmo sempre stati l’una a fianco dell’altro, anche nella vita di tutti i giorni.***********
Angolo autrici:
Eccoci ritrovati!
Ecco qui il sesto capitolo. Siamo entrati nei Boschi Mindri e ci saranno tantissime cose da scoprire sulla vita degli elfi.
Abbiamo un avviso per voi lettori. Una di noi due parte e starà via 35 giorni, quindi non pubblicheremo per un bel po'. Non vi preoccupate vi ritroverete tutti gli aggiornamenti mancati ad agosto.
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The Scorzeer series - L'inizio del viaggio #Wattys2018
FantasyIn terre lontane, in mondi a noi sconosciuti, ci sono esseri di cui il nostro mondo ancora non ne conosce l'esistenza. In un mondo unico, di nome Scorzeer, dove le terre sono state impregnate dalla magia, dalla saggezza e dal bene, ma anche dal sang...