Fin da bambina mi avevano insegnato gli atteggiamenti che dovevo avere nelle più svariate situazioni. Quando qualcuno diceva qualcosa che fosse fuori luogo o quantomeno offensivo dovevo rimanere calma e nascondere al meglio quanto in quel momento quelle parole maligne mi avessero fatta innervosire. Se ero circondata da persone influenti dovevo fare in ogni modo di non creare situazioni di pettegolezzo, io stessa non dovevo diventare oggetto di pettegolezzo: ogni parola, ogni gesto e ogni espressione dovevano essere perfetti. Non avevo minimamente il permesso di avvalermi di quei atteggiamenti tanto fastidiosi quanto innocenti che si hanno da ragazzini, come sbuffare, dondolarsi, borbottare, rispondere male davanti ad una predica...
Dovevo essere una bambolina e in un certo senso lo ero diventata ad un certo punto. Neanche i miei amici avevano questa capacità di forte autocontrollo su loro stessi. Io ci riuscivo e ripensandoci provo un velo di orgoglio per questa mia abilità. Che fosse frutto del continuo insegnamento che avevo alle spalle o di un tratto della mia natura non importava. Importava che c'ero riuscita, ero riuscita a mascherare ogni tratto che avesse la potenzialità di farmi mostrare per quella che in effetti ero.
Non eravamo una famiglia aristocratica, nelle nostre vene non scorreva sangue blu ma mia nonna, vedova di un politico - esigeva un'educazione di questo tipo e poiché con mia madre non era riuscita nella sua impresa da me pretendeva di più. Molto di più. E io la accontentavo: ci dava da mangiare, un tetto sopra la testa, ci aveva dato un'altra possibilità.
Aveva dato a sua figlia - che, senza preoccuparsi di niente e di nessuno, se n'era andata dall'altra parte del mondo con un poveraccio semi-violento - la possibilità di redimersi, di farsi perdonare. E col tempo iniziai a pensare che la modalità con cui farsi perdonare ero io.«Suoni qualche strumento?» mi chiese Edoardo per poi bere un sorso d'acqua.
Mi ero ritrovata controvoglia ad una delle tante cene con quelli che consideravo per l'ennesima volta gli snob più snob che avevo mai visto in vita mia... fino a quando non ne incontravo di altri e mi ricredevo; intorno alla tavolata si respirava un terribile fetore di falsità ed io non solo ero costretta a far finta di niente ma anche a fingere di sentirmi a mio agio.Come se fosse stata possibile una cosa del genere.
Più il tempo trascorreva più sentivo il bisogno di estraniarmi da tutto quello schifo.
Affondai le unghie nel ginocchio coperto da una leggera calza e risposi: «No» per poi aggiungere quando vidi il suo sguardo superbo: «Ma vorrei iniziare.»
Odiavo che la gente mi guardasse in quel modo: mi ricordava sempre di più che io, di quel mondo, non facevo parte. E ogni volta che scorgevo anche una minima occhiata di disapprovazione di quei maledetti ricconi cercavo di aggiustare il tiro, di mostrarmi più interessante, più rassomigliante a loro.
Ma lo sapevo che non era vero. Certo ero capace di controllare le mie emozioni e di comportarmi seguendo precise regole che io stessa mi imponevo, ma restava il fatto che io non ero loro. Comportarsi in modo adeguato ed educato non faceva di me una bella borghese con il mondo ai propri piedi, ma solo una brava bambina obbediente impaurita da ogni possibile giudizio negativo e affamata di qualsiasi conferma positiva che la facesse sentire all'altezza degli altri.
A volte cercavo di non farci caso, di non scavarmi dentro, di convincermi che sì, ero nata in un quartiere dei bassi fondi, ma appartenevo ad una famiglia per bene. Io ero una persona per bene e non avrei mai più assaggiato un pizzico di povertà in tutta la mia inutile vita. E per un po' funzionava.Dopo la cena ci sedemmo sul divano mentre i "grandi" si fumavano una sigaretta sul balcone. Fuori non c'era la presenza di una singola nuvola, il cielo era di un blu scuro tendente al nero e la luna quasi piena si distingueva distintamente in quella superficie che quella sera non era punteggiata da alcuna stella.
«Hai una bella casa» mi disse Edoardo voltandosi a guardarmi. Non mi piaceva quello sguardo, non mi piaceva come spostava fugacemente gli occhi dal mio viso, al mio seno e alle mie gambe. Non mi piaceva quello sguardo famelico: mi faceva sentire una preda, un oggetto di cui appropriarsi. A quel tempo non avevo a cuore l'idea di essere un burattino sessuale in mani menefreghiste e utilitaristiche; ma per non creare casini di vario tipo ignorai il mio disprezzo verso quel ragazzo e decisi di comportarmi come se non avessi capito nulla sulle sue intenzioni.
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The age of anxiety
ChickLitDaphne non aveva potuto fare a meno di non notarlo: quei gesti così calmi e quieti la immobilizzavano. Il modo in cui teneva la sigaretta, con cui beveva una birra, con cui sorrideva. Ogni suo gesto trasudava calma, distacco e un certo disinteresse...