Capitolo 2

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La bambina saltò i gradini con impazienza, lui non si era ancora presentato eppure lo aveva promesso. Si osservò intorno in cerca del nuovo amico, ma di lui non c'era nemmeno l'ombra. Sbuffò irritata e si sedette sull'ultimo gradino che portava alla taverna ormai in disuso. 

C'era qualcosa di affascinante nella luce che si rifletteva nella pozzanghera, fosse il fatto che la luce è la rappresentazione della purezza, della vita mentre lo specchio è così cupo, inusuale. Per raggiungere la taverna dovevo uscire in giardino e usare le scale laterali, nascosti da una massiccia porta di ciliegio. Avevo sempre avuto paura dei corridoio scuri del secondo piano, ma non della taverna. Quella era il posto preferito, lì potevo nascondermi dalla nonna e giocare con Phil.
Stringo con forza la maniglia mentre giro la chiave nella toppa. Con un sordo colpo spalanco la porta e mi ritrovo davanti i trentaquattro gradini; cerco a tastoni sul muro il filo da tirare per accendere la luce. Per un breve momento temo di non trovarlo, ma quando le mie dita sfiorono un cordoncino ruvido, tiro con impazienza e trattengo il fiato. Non c'è nulla.
Solo i trentaquattro gradini impolverati.
Inizio la discesa con costante ansia che mi divora. L'oppressione è a livello dello stomaco: un pugno, una mancanza d'aria. Vorrei vomitare. Eppure continuo. I passi risuonano acuti nel silenzio. Trentadue, trentatré, trentaquattro. Trentaquattro gradini.
Scoppio a ridere e mi affloscio sull'ultimo gradino. Che stupida che sono! Davvero pensavo di trovare l'ombra di un bambino seduto davanti al giro dell'oca?  Phil era probabilmente solo un amico immaginario, io non ho fatto i seicento chilometri per vederlo, ma per ricordarmi. Già, ho bisogno di capire chi sono o, meglio, chi sono diventata. In ginocchio striscio verso il gioco, una semplice tavola con cinquanta quadranti dove io avevo scritto delle brevi penitenze da fare una volta che si arrivava a una casella con l'oca. Ci passavo interi pomeriggi a giocare. Osservo le pedine stupita. Sono tre. Non due, ma tre. Un sasso posto sul numero sette, una noce sul numero quindici e una moneta sull'oca. E' quest'ultima casella ad attirare la mia attenzione, so per certo che la monetina da cinquecento lire è mia. Alzo la pedina e prendo il biglietto ingiallito.

"Che il gioco ricominci" leggo ad alta voce.

Eppure la voce che esce dalle mie labbra non sembra la mia, è più infantile, più divertita e lontana. Inspiro l'aria e mi osservo intorno. Non c'è nessuno. Solo vecchi lampadari, libri sparsi e una decina di scatoloni ben imballati. Espiro lentamente. Un rumore brusco mi fa alzare di scatto. Corre verso le scale e vedo spuntare dall'entrata il volto sorridente di un uomo. Mi guada, facendo un cenno di saluto.

"Quando il vecchio mi ha detto che sei tornata, non potevo crederci" borbotta.

Lo osservo con più attenzione. La sua fronte alta, i riccioli neri e gli zigomi ben pronunciati mi sono familiari. Sono quasi certa che abbia gli occhi limpidi come il cielo primaverile, così diversi da quelli ambrati di suo padre.

"Edoardo" mormoro sottovoce.

"E così mi hai riconosciuto."

"Sei cambiato molto, non hai più le guancette paffutelle."

Scoppia a ridere. E ora non ho più dubbi, sì è Edoardo, il figlio di Oscar e Rosetta e il mio amico d'infanzia. 

"E tu invece hai ancora le tue fossette. Vieni su o scendo io giù?"

Sto quasi per dirgli di scendere, vorrei vedere la sua reazione davanti al giro dell'oca, ma quando sto per farlo avverto una sensazione di smarrimento, così dolorosa che devo fare appello a tutte le mie forze per non piangere. Abbasso lo sguardo e guardo la stanza per l'ultima volta. Tutto è fermo e immobile, come lo avevo lasciato quattordici anni fa. 

"Aspettami, arrivo" dico mentre salgo su. Lui mi porge la mano e mi aiuta a salire l'ultimo gradino. 

La luce del sole mi acceca, passo la mano sul viso e, una volta abituata a tutta quella luminosità, osservo Edoardo. Mi stupisco nel constatare che sia diventato decisamente bello. Osservo con attenzione il lieve accenno della barba curata, le labbra sottili dipinte in un sorriso di scherno, i vestiti eleganti. Il giovane davanti a me non ha niente a che vedere con il bambino piagnucolone di cui ho il ricordo.

"Ti avevo detto che da grande sarei stato affascinante quanto mio padre" spezza il silenzio con una battuta. Questo lo faceva anche da piccolo.

"Ti ho battuto, però. Tu sei affascinante tanto quanto tuo padre, mentre io sono la più bella della famiglia". Incrocio le braccia, pronta a ribattere se mi avesse contestata.

Ma Edoardo non lo fa, si avvicina e mi abbraccia con spontaneità. Lascio scivolare le mani lungo i fianchi, un po' in imbarazzo per quel gesto d'affetto improvviso. Non ricambio e, anche se cerco di convincermi che non lo faccio per il disagio, so che non è così. C'è una parte remota di me che teme la reazione di Phil. La reazione di un bambino inesistente, lo so

"Cosa ci facevi laggiù?" 

Fa un passo indietro e mi studia; non noto nessuna reazione per la mia freddezza, come se lo aspettasse da me.

"Esploravo."

Edoardo annuisce, vedo un lampo di un sentimento sconosciuto attraversargli il volto, per poi scomparire. C'è qualcosa che lo turba.

"Che ne dici se mi fermo da te, così mi racconti un po' della tua vita mentre ti preparo polenta pasticciata?"

Scuoto la testa divertita. 

"Strano modo per invitare una donna a cena", non riesco a smettere di sorridere, mi sembra di non essere mai andata via da questo posto. "E va bene, cucinami questa deliziosa cena."

Mi avvolgo il cardigan, sta iniziando a fare freddo. Lancio un'occhiata alla porta chiusa della taverna con il sorriso ancora sulle labbra. Lascio che Edoardo mi prenda la mano e mi trascini verso casa, la mia casa. E mentre lo seguo, beandomi di tutta quest'assurdità, rivedo la scena. Tre pedine. Un sasso, una noce, una monetina. Finalmente capisco cosa manca. 

I dadi. 

Tocca a lui fare la prossima mossa.


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⏰ Ultimo aggiornamento: Oct 03, 2018 ⏰

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