Dodicesimo capitolo.

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Dodicesimo capitolo.

E’ passata una settimana da quando Camice Blu ha ricevuto quella chiamata. La conversazione è durata poco, composta essenzialmente da smorfie insofferenti e mugolii di risposta. Non ho osato chiedere, sebbene la mia curiosità sia tutt’ora in fermento. Credevo di conoscerlo, ma evidentemente, mi sbagliavo. Non so nulla dell’uomo che ho difronte, so a malapena il suo nome, come posso pretendere di entrare a far parte della sua vita? Scuoto il viso. L’amarezza di quel pensiero mi perseguita da giorni ormai, lasciandomi a secco. Non potrebbe andare peggio di così, penso tra me e me. L’unica bella notizia è che non ho più avuto attacchi di panico. Niente più ricordi sfocati, niente più mal di testa, niente di niente. Camice Blu non è contento quanto le mie aspettative. Continua ad insistere affinché io vada a fondo, alla ricerca della mia famiglia. Credo che sia meglio stabilire delle regole. Lui non si intromette nel mio passato, io non mi intrometto nel suo. E’ abbastanza ragionevole, no? Per quanto le sue intenzione siano del tutto onorevoli, preferirei essere autonoma finché posso. Non voglio dipendere da qualcuno, che cambia umore di continuo. Come posso fidarmi, se si comporta così? Probabilmente dovrei fare il primo passo, ma credo di non essere quel tipo di persona.

Stamattina Camice Blu è uscito all’alba, ed io non ho avuto nemmeno il tempo di augurargli buona giornata. A dire il vero, non ho mai visto nessuno sparire così tanto in fretta. Non ha fatto colazione, ha dimenticato le chiavi sul comodino e come se non bastasse ha sparpagliato per la camera vestiti su vestiti. Che si arrangi. Io non ho la minima intenzione di mettere mano in mezzo a quel caos. Ho bisogno di concentrarmi su me stessa, adesso. La mia dea interiore si stiracchia, rinsavita dal suo sonnellino di bellezza. Mi guarda dall’alto delle sue lunghe ciglia, corrucciando le labbra. Alzo  mentalmente gli occhi al cielo, mettendola fin da subito a tacere. Oggi non sono dell’umore.

Le nuvole incombono minacciose, rispecchiando il mio umore tetro. Arriccio le labbra in una smorfia che la dice lunga su come mi sento. Forse dovrei trovarmi un passatempo, o ancora meglio, un lavoro. La nuova prospettiva mi fa battere le mani, riaccendendo un barlume di speranza. Per il momento, non voglio dire nulla a Camice Blu, farebbe il diavolo a quattro. Mi lascio abbandonare sul divano, rimuginando.

Le ore passano lente, inesorabili, e per ironia della sorte, il mio tasso di nullafacente è schizzato alle stelle. Lancio una rapida occhiata all’orologio. E’ l’una spaccata. E se.. No. Non posso disturbarlo. Eppure.. Oh ma andiamo, sul serio? Mi lascio sfuggire un leggero sbuffo, mentre la tentazione diventa sempre più forte. Al diavolo. Mi precipito in camera da letto, andando alla ricerca del mio cellulare. Una volta trovato, digito come una psicotica il suo numero, premendo il tasto di avvio di chiamata. “Datti un tono, Thobson”, sussurra la mia vocina interiore. Camice Blu risponde al secondo squillo.

“Jos?” Sembra sorpreso.

“Ehi.” Mormoro, la voce leggermente roca.

“Tutto bene?” Raddrizzo le spalle, accidenti, devo davvero darmi una calmata. Perché sono così agitata?

“Sì. Sei in ospedale?”

“Ehm..” Camice Blu tentenna. L’asse del mio universo oscilla, fermandosi. Aguzzo l’udito. “No, sono..” Davvero? “A pranzo..” Oh ma andiamo. Una voce incorporata pronuncia il suo nome. Si può sapere dove diavolo si trova? La domanda mi pizzica la punta della lingua e devo fare un grande sforzo, visto e considerato che non sono cose che mi riguardano, per non proferire neanche mezza parola inopportuna. “Ci sentiamo dopo.” La sua voce adesso è fredda, autoritaria. Mr. Lunatico è di nuovo in città e non ce ne è per nessuno. Annuisco più a me stessa che a lui.

“A dopo.” Sibilo, riattaccando.

Sono amareggiata, depressa e mi sento terribilmente sola. Continuo a pensare che questa casa sia troppo grande. Camice Blu dovrebbe essere già tornato, ma non c’è traccia del suo bellissimo ciuffo che gironzola per i corridoi. Lacrime stupide e incontrollate mi contornano il viso. E queste, da dove vengono? “Vuoi ritrovare la tua famiglia, ecco da dove vengono.” La mia vocina interiore non ha pietà. La verità mi colpisce in viso, senza darmi modo di reagire. Vorrei sapere di più su chi sono, a chi appartengo veramente. Vorrei poter vivere una vita normale, senza tutto il fardello che mi porto appresso da quando mi sono ritrovata tra quelle quattro mura di ospedale. Vorrei che Camice Blu fosse più presente, e Dio solo sa, quanto la sua assenza possa ferirmi. Un giro di chiave, mi avverte che qualcuno sta entrando. Zayn spunta da dietro la porta in ottomana, ma a mia insaputa, non è da solo. Amber è con lui. Tento invano di asciugarmi le guance, stropicciandomi gli occhi fino a farmi male. Maledizione. Sposto l’attenzione sullo schermo oscurato del televisore, l’espressione vitrea e il viso arrossato.

“Jos, sono a..” La voce gli muore in gola, non appena posa lo sguardo su di me. Cazzo. Cazzo. Cazzo. I tacchi di Amber non emettono più alcun rumore, mentre sono tentata di girarmi e sbattergli in faccia che non è la benvenuta. Faccio un respiro profondo, concentrandomi sul mio riflesso. “Ma che è successo?” Camice Blu si guarda intorno, smarrito. Opto per il silenzio. Se mai dovessi parlare, esploderei come una bomba atomica, pronta a fare piazza pulita. Mi stringo le braccia intorno al corpo, come se volessi proteggermi. “Amber, ci puoi lasciare soli?” Con la coda dell’occhio vedo il corpo della ragazza girarsi, in direzione delle scale. Camice Blu scuote il viso. “Vai a casa.” Oh.. Questa non me l’aspettavo. La mia dea interiore agita i pugni in aria, esultando. Percepisco, più che vedere, la porta aprirsi e poi sbattere contro lo stipite. Deve essersi arrabbiata parecchio, penso tra me e me. Zayn sospira, passandosi una mano sul viso. “Mi vuoi dire perché stai piangendo?” Mormora, la sua voce è dolce, quasi accondiscendente, come se stesse parlando ad un animale ferito. Scuoto lentamente il volto. “Cosa devo fare con te?” Si avvicina al divano, dove mi sono chiusa a riccio. Sento il peso del suo corpo sprofondare sul bracciolo. Comincia ad accarezzarmi i capelli e tutto il mio universo sembra calmarsi. Ecco, questo è l’effetto che lui ha su di me. E’ veleno e antidoto allo stesso tempo.

“Piccola, parlami..”

“Aiutami a trovare la mia famiglia.” Sentenzio, tutto d’un fiato, come se mi stessi liberando di un peso troppo grande da sopportare. L’ho detto. Finalmente. 

Ad un passo da te. (IN REVISIONE)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora