Ho male alla testa e le palpebre così gonfie che a stento riesco a tenere gli occhi aperti. Il volto di Carla è una macchia appannata dalle mie lacrime.Sono ancora seduta sul pavimento mentre, fuori, il chiarore dell'alba si spegne, come l'urlo di una madre, appena dopo il parto. È nato un nuovo giorno e io non sono degna di parteciparvi.
Guardo la porta del bagno e osservo la porcellana del lavandino, penso che dovrei alzarmi per raggiungerlo e darmi una sciacquata alla faccia. Penso che dovrei, ma non voglio. Rimarrò qui, in eterno, con la testa trafitta da spilli arroventati e gli occhi accecati dal pianto, per l'eternità. Se lei non vive, perché io dovrei trovare il sollievo dell'acqua fresca? Se lei non c'è, perché dovrei esserci io?
Qualcuno bussa alla porta. La voce di Greta mi arriva ovattata, ma posso coglierne le sfumature dolci, che ho già conosciuto ieri. Ieri, mi pare di essere qui da una vita.
Non rispondo, non posso. Un fruscio leggero accompagna la scivolata ruvida di qualcosa spinto sotto la porta.
Resto immobile, non riesco a mettere a fuoco. Mi stropiccio gli occhi, avverto sollievo nell'attenuare il prurito di cui solo ora mi accorgo e, allo stesso tempo, mi ritrovo a gemere per l'immediata risposta dolorosa della pelle arrossata e gonfia.
Ho bisogno di sciacquarmi. Mi alzo e appoggio la foto sulla cassettiera.
L'acqua è ghiacciata e mi pizzica la pelle, rimango a fissare il mio viso nello specchio, con le mani appoggiate sui bordi del lavabo.
–Eccoti qui, piccola stupida. – mi dico e stropiccio le labbra in una smorfia che vuole assomigliare allo scherno, ma che non va oltre il disgusto.
Quando esco dal bagno mi dirigo verso l'oggetto squadrato sul pavimento. È una busta di carta ruvida e spessa, guarda un po', di colore viola pallido. Ha un certo peso, la apro e mi ritrovo tra le mani un cartoncino dello stesso colore. C'è scritto qualcosa sopra:
Questa sera, in occasione della Giornata d'Inverno, la cena verrà servita all'aperto. Non occorrono abiti pesanti.
Una cena all'aperto, senza abiti pesanti. Vogliono farci morire di polmonite, penso. Ma che importa. L'idea della cena risveglia il mio stomaco, è un riflesso incondizionato, non mangio da quanto, ventiquattro ore? Forse di più. Non vorrei, ma ho fame. La colazione verrà servita fino alle dieci, guardo l'orologio, ma è fermo. Una lieve fenditura ne attraversa il vetro convesso e la cassa, sul bordo destro è rovinata. Faccio il gesto di togliermelo, poi ripenso al giorno in cui mamma me lo ha regalato. È uno dei pochi oggetti che ancora mi lega a un passato vivo, non sono pronta a dirgli addio. Non m'importa che ore sono, mi basta sapere se è giorno o notte, o forse non m'importa neanche di quello. Però il suo peso al polso, di quello m'importa, della sensazione di stretta a cui sono abituata, che mi ha fatto immaginare la mano di mia madre al suo posto. Lascio scivolare via questo pensiero, come una foglia che si allontana sulla superficie brillante di un ruscello d'estate e torno ad ascoltare i segnali di vita del mio corpo. Ho bisogno di una doccia e di cibo, perché non è ancora ora. Non ancora.
Quando scendo, la sala è immersa nel chiarore ambrato della prima mattina. Non ci sono luci artificiali accese, basta il giorno a illuminarne gli arredi, gli schienali curvi, i contorni dei tavolini disposti contro le grandi finestre, in fondo.
L'aroma del caffè appena fatto riempie l'intero ambiente e si accompagna bene con l'odore di pane tostato e le chiacchiere degli astanti. Il signore coi baffi siede solo al tavolino di destra, mentre la donna con lo chignon chiacchiera con lo stesso cameriere del giorno prima. Greta mi sorride dal bancone e allunga una mano in direzione della sala, per invitarmi a raggiungerla. Remo spunta dal piccolo ascensore e sparisce lungo un corridoio che noto solo ora. Più in là, nell'angolo in fondo a sinistra, a riparo dalla luce e da eventuali sguardi, trovo il mio posto ideale: uno sgabello alto e solitario, accostato al bancone del bar.
Lo raggiungo e mi siedo. Un cameriere attempato mi si palesa davanti e mi porge una tazza fumante di caffè nero.
–Latte? – mi domanda.
Annuisco.
Poco più avanti, lungo il bancone, noto un vassoio di pane tostato e tagliato a fette e della marmellata.
–È marmellata alle rose.
Alzo lo sguardo, a parlare è un ragazzo seduto sullo sgabello di fianco al mio. Non ho notato la sua presenza e nemmeno quella dello sgabello prima che vi si sedesse.
–Sono Stefan. – dice e mi porge la mano.
–Lea. – rispondo ma non accolgo l'invito alla stretta.
–Sola?
–Sì. – aggiungerei che mi piacerebbe restarci, ma non vorrei sembrare maleducata.
–Hai l'aria triste.
Soffio uno sbuffo ironico dalle narici e arriccio le labbra in un sorriso surrogato che ormai pare essere l'unico atteggiamento che la mia bocca riesce a riprodurre.
–Hai lasciato il tuo desiderio? – Gli domando e mi stupisco di averlo fatto, ma al mio cervello deve essere parso il modo migliore per sviare il discorso.
–Certo, prima o poi lo facciamo tutti.
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L'albergo Dei Desideri.
AdventureLe pareti sono dipinte di un viola tenue, alle due finestre, che danno sul giardino innevato, sono appese tende bianche con inserti di raso verde. Nella stanza aleggia un tenue profumo di lavanda sotto cui avverto una punta di finocchio selvatico. M...