Era solo un sogno?

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Oggi il vento soffia forte fuori dalla finestra del mio studio. Batte sulla tapparella e produce un fastidioso scricchiolio. Sono stato costretto più volte ad accendere una candela perché la luce è andata via diverse volte lasciandomi al buio. L'aria è pesante, l'atmosfera ha un che di strano, forse è il fatto che è tutto scuro e cupo a causa del temporale. Ha smesso di piovere solo qualche minuta fa, ma il cielo rimane minaccioso e ogni tanto la luce di un fulmine mi arriva dalla finestra di fronte. Forse in parte è proprio questo tempo cupo che mi ha fatto venire voglia di mettermi qui seduto a scrivere queste pagine. Ma in realtà credo che il vero motivo è che meno di una settimana fa è stato il mio settantacinquesimo compleanno. E già, non mi resta molto da vivere, stiamo venendo agli sgoccioli e credo che finalmente sia arrivato il momento di mettere per iscritto una storia che mi scosse profondamente molti anni fa, di cui non ho mai parlato con nessuno, nemmeno con mia moglie, per paura di essere considerato un pazzo, ma adesso, nella vecchiaia forse sarebbe meglio sfogarmi per non rischiare di portarmi il peso di questo segreto nella tomba.

Ciò che mi successe fu abbastanza singolare per un avvocato trentottenne, che ha sempre avuto una vita semplice e ordinaria. Ecco... credo di aver assistito ad un omicidio, ma non in modo diretto... non ho parole per spiegare chiaramente la questione in poche righe, quindi mi limiterò soltanto a raccontare passo per passo tutto ciò che mi successe. Non posso biasimare i lettori che non crederanno a una storia del genere, ma vi do la mia parola che ho visto e provato tutto ciò che scriverò di seguito.

Erano circa le 11.45 del due dicembre 1987. Ero appena uscito dal mio ufficio. Ero esausto, il processo in cui ero impegnato era molto impegnativo e mi costringeva a lavorare fino a tardi. Per la medesima ragione mi stavo recando a casa del mio cliente per consegnargli dei documenti. Le strade erano deserte, faceva freddo, la neve ricopriva i marciapiedi e nell'aria c'era un odore insolito, sporco, pesante. Arrivai in Portist Street, dove abitava il mio cliente. Trovai il suo indirizzo ed entrai. La struttura era un alto grattacielo e infelicemente scoprì che l'appartamento si trovava al ventiduesimo piano. Ero stanchissimo e non avevo per niente voglia di fare tutte quelle scale. L'alternativa era l'ascensore. Raramente prendevo gli ascensori. Non mi piacevano e mi causavano un senso di claustrofobia. Probabilmente per il fatto che a sette anni ci ero rimasto bloccato da solo al buio per sette ore finché i vigili del fuoco non erano riusciti a tirarmi fuori. Questa esperienza mi aveva scosso profondamente e fu per me un vero trauma. Ma questa volta la stanchezza prevalse sulla fobia e mi avviai verso l'ascensore di fronte all'ingresso. Premetti il tasto e mentre aspettavo che la porta si aprisse entrò nel palazzo un altro uomo. Era sulla quarantina, alto e magro, con baffi curati e una giacca da ufficio. Aveva un bage appeso al petto, dal quale lessi il suo nome. Stave Herm. Stave, lo stesso nome del mio migliore amico al liceo, pensai. Stave Herm.

«Salve» lo salutai.

Mi rispose solo con un cenno. Notai subito un senso di nervosismo contagioso negli occhi dell'uomo. Provai una brutta sensazione e forse per questo rivalutai l'idea di prendere le scale, ma l'ascensore si aprì e allora entrai insieme all'uomo, nonostante il mio istinto si opponesse con forza.

Entrati, la porta si chiuse. Rimanemmo chiusi nella cabina di poco meno di due metri quadrati. Le pareti erano di un rosso sangue e davanti alla porta c'era un piccolo specchio. Era presente un brutto odore di muffa, che contribuì ad aumentare il mio senso di disagio. L'ascensore partì, sentì la spinta verso l'alto e per un momento il panico prese il sopravvento, ma con una forte forza di volontà riuscì a mantenere la calma. Ormai eravamo già al decimo piano. Il mio nervosismo aumentava sempre di più. Tredicesimo piano. Panico. Sedicesimo piano. Panico. Diciassettesimo piano. Panico. Diciottesimo piano. Panico. Ora eravamo al ventesimi piano, tra due piani saremmo finalmente arrivati! Non riuscivo a stare più in quella minuscola cabina. Ventesimo piano. È qui che cominciarono i problemi. L'ascensore si bloccò. No! Mancavano solo altri due piani! Ero intrappolato insieme a Steve lì dentro.

Il battito del mio cuore diventò così veloce che per un attimo credetti di stare per avere un infarto. Stavo rivivendo l'incubo che mi aveva scosso tanto da bambino, ma sta volta fu molto peggio. Guardai Steve, sembrava sempre più nervoso, come se andasse di fretta e quel contrattempo lo avesse bloccato fatalmente. Ci guardammo e lui non disse neanche una parola e si precipitò, potrei dire con aria disperata, sul pulsante di emergenza e l'allarme cominciò a suonare. Ero sempre più preoccupato e la presenza di Steve non mi rassicurava affatto, anzi avrei preferito essere da solo, perché quell'uomo mi metteva un senso di disagio che non sapevo da cosa provenisse di preciso. Poco dopo lo scatto dell'allarme avvenne l'evento fatale. Tutto successe in pochi attimi, che mi sembrarono un'eternità. La luce bianca delle lampadine fu sostituita da una luce rossa a intermittenza come quella di una sirena. Steve cominciò ad urlare, mi girai verso di lui e vidi la cosa più orribile e spaventosa che un uomo abbia mai visto. C'era una strana creatura, un mostro potrei dire, aveva un corpo dalla stessa forma di quello umano, ma era ricoperto di squame nere, le dita terminavano con lunghi artigli affilati e la testa era priva di orecchie, occhi, naso e bocca ed era invece rivestita da lunghi capelli neri. Nell'oscurità della luce rossa, il mostro si buttò su Steve, sfiorandomi e provocandomi un taglio superficiale sul polso destro. Poi raggiunse l'uomo e gli squarciò l'intestino con le dita. Steve si accasciò a terra e il suo sangue schizzò sullo specchio, dove riuscì a notare che non era riflessa l'immagina del mostro. La creatura si girò verso di me e io gemetti di paura. Non potevo scappare! Si avvicinava, chiusi gli occhi. Poi l'ascensore si aprì. Riaprì gli occhi, il mostro non c'era e la luce bianca era accesa. Steve era morto per terra con la bocca e gli occhi spalancati in un'espressione agonizzante e la pancia aperta da cui si intravedevano pezzi di intestino. Mi precipitai fuori verso le scale in preda al panico, inciampai e caddi sbattendo la testa sulla ringhiera e tutto ciò che era intorno a me scomparse.

Mi risvegliai sudato nel letto della mia camera al buio. Era solo un sogno! Ma era sembrato così reale! Guardai la sveglia sul comodino, erano le 6.30, mia moglie era già uscita. Mi alzai e andai in cucina per prepararmi la colazione. Accesi le luci, sul tavolo c'era già il quotidiano del giorno che aveva portato mia moglie. Tesi il braccio per prenderlo e notai con inquietudine che sul polso destro era presente un graffio, proprio come quello che il mostro mi aveva fatto nel sogno. Poi lessi il titolo in prima pagina. Trovato col ventre squarciato nel letto. Lessi il nome della vittima. Steve Herm.



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