Ettore - Quello di cui non parli mai

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« Nicolò attento! »

La pallonata lo centrò in testa prima che Nico potesse fare qualsiasi cosa - prima di poter fare appello ai propri riflessi e al proprio senso di sopravvivenza.

Ebbe un attimo di confusione, prima di cadere a terra come una pera cotta.

Dall'altra parte del campo il cuore di Ettore nel vederlo cadere mancò di un battito; cominciò a correre, lasciando perdere la partita e i compagni di squadra, e si gettò rapido in soccorso dell'amico.

Giocavano a basket insieme da quando avevano tredici anni, avevano continuato per tutto il liceo, preso parte alla squadra universitaria e niente - ma proprio niente - aveva guarito Nico dalla sua distrazione cronica, dalla sua innaturale e bizzarra tendenza all'incidente. Era l'incarnazione vivente della legge di Murphy; se qualche cosa di catastrofico può accadere, state pur certi che accadrà.

« Tutto bene?! » chiese Ettore, inginocchiandosi vicino a lui. Nico, ancora steso per terra, ridacchiava; era un'altra delle sue prerogative, sghignazzare immediatamente dopo l'essersi fatto male. Lo aiutava a stemperare la tensione, diceva: ma era anche il segnale che non c'era nulla di grave in corso. Ettore, quando lo vedeva ridere, sentiva quel nodo di preoccupazione che aveva in gola sciogliersi nel petto. E sentiva anche qualcos'altro - un calore in fondo allo stomaco alla quale per anni si era rifiutato di dare un nome o una consistenza.

Aveva un sorriso dolcissimo, Nico. Un leggero diastema tra gli incisivi e le labbra carnose, sempre morbide. I capelli rossicci, sudati, erano scompigliati sulla fronte; e gli occhi scuri tradivano un'impronta più quieta, vagamente malinconica, forse un po' troppo seria per un ragazzo della sua età.

« Sì E', ormai dovresti sapere che ho la testa dura. » gli rispose, afferrando la mano che Ettore gli porgeva per rialzarsi. Si risollevò, pulendosi le ginocchia; prevedibilmente aveva finito con il riaprire una crosta sul ginocchio, ferita di guerra dell'ultima partita.

« Collodi e Martini, ricominciate a giocare immediatamente, che abbiamo già perso troppo tempo! » li sgridò il mister, dividendoli e costringendoli a tornare nelle rispettive squadre.

Ettore cominciò a correre, ma voltò appena la testa per controllare i movimenti di Nico che, ancora ridanciano, raggiungeva i suoi compagni che lo accoglievano con poderose pacche sulle spalle. Lo vide tastarsi il cerchietto che portava all'orecchio sinistro, come faceva sempre quando era in imbarazzo, e sospirò, ritrovandosi a pensare a quando tutto era cominciato.

*

2010

Era una domenica pomeriggio di un afoso fine Maggio. In camera di Ettore, la finestra era aperta sul giardino antistante; la quercia che avevano piantato i suoi nonni cresceva rigogliosa, e di tanto il tanto il vento muoveva le tende color crema, che andavano a sfiorare eleganti il parquet chiaro che sua madre aveva scelto anni prima per lui. Fuori, nel primo pomeriggio, un uccellino cinguettava divertito; era l'unico suono in una Roma stranamente silenziosa - forse per colpa della partita, dove l'intera città si era concentrata per il derby.

Anche lui avrebbe voluto vederlo, e invece gli toccava di dare ripetizioni di greco a Nico, che di studiare non voleva proprio saperne; era arrivato con un quarto d'ora di ritardo, aveva lanciato il casco sul divano e poi si era pigramente appropinquato vicino alla scrivania, aprendo il libro di malavoglia e cominciando a sottolineare completamente a caso.

« Dai, se fai così non recupererai mai. »

Lo aveva bacchettato Ettore, che invece era il primo della classe. Già a diciassette anni aveva le idee chiarissime riguardo il proprio futuro: dopo il liceo si sarebbe sicuramente iscritto a ingegneria ambientale, e avrebbe provveduto a studiare sistemi per risanare l'ambiente. In realtà avrebbe voluto fare agraria, ma sapeva già che i suoi genitori non sarebbero stati d'accordo; ragion per cui, aveva deciso di ripiegare sulla cosa più tecnica possibile, ma che comunque lo avrebbe fatto lavorare a stretto contatto con qualcosa che amava.

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