Penne e cioccolata

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Tic tac. Tic tac. Tic tac. Tic. Tac. Ti. Tac. Tic. Tac. Il polso di Alessandro contava ogni singolo secondo, senza fermarsi, e sembrava che dilatasse il tempo.
Flebili parole nascevano da una penna scura come la notte senza Artemide ad illuminare il globo.
Era così preso dall'aspirazione che sudava, nonostante fosse inverno. Un comportamento degno di Leo Valdez, ma si era sempre ripetuto che Efesto non sarebbe mai potuto essere il suo genitore divino; le uniche cose che riusciva a costruire erano gli edifici lego. Dopo svariati periodi in cui il suo genitore divino cambiava, da Ermes a Zeus, da Atena a Poseidone, arrivò alla conclusione che Apollo dovesse essere suo padre. In effetti, Apollo era il dio della poesia, della medicina, della scienza, della conoscienza, del Sole e delle profezie, tutti argomenti che a lui piacevano davvero un sacco. In particolare la poesia. Era la sua passione più grande, stava sopra la scrivania ore ed ore a scrivere versi. Tramutare i suoi pensieri in figure retoriche era così soddisfacente che provava un immenso piacere ogni tal volta che finiva di scrivere una poesia.
Era solito scrivere sulla natura e gli eventi atmosferici, come la tempesta o il fiume, e poi ci collegava un tema, un fatto, un sentimento.
Ecco, era proprio quello che stava facendo ora, scrivere delle storie che descrivessero la natura, e poi paragonarle ad un'emozione.

«Ale io vado a lavorare, ci vediamo domattina»
«Sì mamma, ciao» disse a sua madre, un'infermiera che lavorava 27/24.
Ormai si accorse che era arrivato a scrivere più di una decina di versi. Per di più erano piene di parole superflue, stupide e insignificanti. Strappò il foglio. Odiava quando aveva l'ispirazione a mille ma poi il risultato finale veniva la schifezza più totale.
«Ora che sono a casa da solo, finalmente posso parlare a me stesso ad alta voce, che bello.» Nessuno rispose. Sua madre lavorava, suo padre pure e sua sorella era uscita fuori con le sue amiche.
Cominciò a parlare, a parlare, a ridere, a piangere, a gridare, cercando di produrre delle climax e delle metonimie decenti.
Il suo adorato orologio segnava ormai le due di notte, ma almeno era soddisfatto del suo lavoro.
«Okay, ora la ricopio su un foglio bianco, la firmo e la metto a riposare dentro al mio zaino, così domani sarà già pronta per essere letta dalla persona cui ho dedicato questa mia poesia.» Ma sapeva già che la prima a leggerla sarebbe stata Margherita, ne era sicuro.
Solo in quel momento si accorse che era tardissimo. E domani aveva pure scuola, quindi si sarebbe dovuto alzare alle sei. «Caspio, stanotte potrò dormire solo quattro ore.»
Ora che ne era cosciente, i suoi occhi cominciarono ad appesantirsi, e non fece neanche in tempo ad alzarsi dalla sedia, che si assopì in un sonno più profondo del Tartaro.

"Ahia, mi fa male la schiena"
"Ho freddo"
"Non sento più le gambe"
"Se il mio telefono non la smette di fare le fusa gli do fuoco"
"Ah già, devo spegnere io la sveglia"
"Cavolo però, sono passate già quattro ore?"
Aprì gli occhi. Tremava come una lavatrice accesa, e stranamente il materasso era durissimo. Le uniche cose che poteva vedere da lì erano le gambe del letto e della scrivania. Solo ora cominciò a capire. Si era addormentato sulla sedia, e poi era caduto sul pavimento, ma lui continuò a dormire imperterrito, fino a quando la sveglia non suonò. Nemmeno un grido di Hulk avrebbe svegliato quel ragazzo.
Provò ad alzarsi, ma le sue gambe non volevano muoversi. Dopo svariati tentativi, riuscì a stare in piedi, ancora tremante, ma almeno stava in piedi. Bevve una cioccolata calda, e si preparò per uscire di casa. Passò per il sentiero di pietre, e questa volta poté ammirarlo tutto il tempo che volle.
Oggi, si sarebbe dichiarato alla ragazza di cui era innamorato, e questo lo metteva abbastanza in agitazione. Era troppo nervoso. Ripensò alla poesia, e si chiese se non fosse un po' troppo esagerato un gesto del genere. La persona in questione avrebbe potuto dare sia una risposta negativa, sia una positiva, ma lui era più convinto sulla prima scelta.
Ma non gli importava, voleva solo levarsi questo peso di dosso.
Piovve tutta la notte, ma solo adesso se ne accorse. Le pietre erano umide, l'aria era più fresca, e si erano formate pozzanghere dappertutto. I suoi passi producevano un rumore bizzarro, come quelli della ragazza che si stava avvicinando a lui.

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