Sineddoche e accendini

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Magari l'orologio della sua classe potesse ancora funzionare, magari.
E invece ora Alessandro si ritrovava seduto sul suo banco di scuola a dover ascoltare una stupida lezione sulle figure retoriche che già aveva studiato per conto suo.
Cavoli, quanto avrebbe voluto starsene lì a fissare l'orologio ipnotico che rintoccava i secondi, i minuti, le ore. Evidentemente però i bidelli si devono essere dimenticati di ricaricare le sue pile. Infatti, ora era fermo immobile, obbligato a scioperare dall'unico compito per cui era stato creato. Era, secondo lui, mezzanotte e tre quarti, circa undici ore in meno di quello che sarebbe dovuto essere.
La mattinata era passata piuttosto bene: durante la prima ora la professoressa aveva interrogato un paio di persone su monomi e polinomi e quella roba lì; dopodichè il professore di religione spiegò ai pochi che ancora la facevano l'enorme differenza tra religione naturale e rivelata (ovviamente Alessandro, siccome i suoi genitori erano davvero molto assai credenti, si era sorbito ogni singola parola); poi la supplente di inglese, con il suo accento romano parlò nella lingua che avrebbe dovuto sapere per ben due ore; scattata la ricreazione tutti gli alunni uscirono dall'aula, compreso Alessandro, che incontrò il fratello maggiore di Margherita insieme a lei; e infine ecco arrivato il presente, mentre la prof. Argusto stava facendo degli esempi di sineddoche.
«La parte per il tutto ragazzi, la parte per il tutto» esclamò, dopo aver scritto la frase "le mura vennero conquistate" sulla lavagna nera, con un gesso stridulante. Le facce stordite degli alunni intorno ad Alessandro emettevano un solo significato: non ci stavano capendo niente di tutto ciò.
Ma tanto a lui che importava di loro, degli adolescenti conformisti, razzisti, omofobi e transfobici. Sicuramente c'erano delle eccezioni, come Carlotta, Margherita, Federico, o Martina, tuttavia per il resto della classe era riservato un girone a parte dell'inferno. Già dall'inizio dell'anno avevano incominciato a denigrare Alessandro semplicemente perchè non gli piaceva giocare a calcio o ascoltare trapper che fumano e si drogano. Se fosse stato per lui, ci avrebbe fatto amicizia con totale tranquillità, senza alcuno sforzo, però la sua e la loro morale avevano detto di no.
Ora invece, da quando cominciarono l'epica (quindi figure retoriche) lo guardavano come una specie di dizionario vivente a gettoni. Doveva fregarsene delle loro continue richieste di aiuto, ma ogni volta accettava di dare la definizione di metafora, similitudine, metonimia, ipallage e tante altre cose. Chissà perchè lo faceva, proprio non riusciva a spiegarselo. Anche in quel momento, la sua vicina di banco Sara, che se indossasse meno vestiti rimarrebbe completamente nuda, gli chiese di rispiegare per la miliardesima volta la sineddoche. Lo ripetè, altre dieci, venti, trenta volte. Alla trentunesima chiuse gli occhi, e aspettò così fino al suono della campanella.
Non riuscì nel suo intento, perché due minuti dopo un dito toccò la sua spalla sinistra, un'altra volta, e con questa erano già a tre; prima o poi sarebbe tornato a casa in compagnia di una una clavicola rotta.
Con uno scatto cercò di capire chi fosse, mettendo poi a fuoco una piccola figura. Era Martina, una delle eccezioni, sorrideva teneramente e gli domandò se stesse bene.
«Sì sì sto benissimo, grazie mille» le rispose, per poi indossare anche lui un sorriso. Rimanerono a parlare per il resto della lezione, siccome la professoressa si era stancata di loro, e ora era intenta a digitare tasti nel suo cellulare più vecchio del caro capitan ghiacciolo.
Discuterono di varie cose, compreso dei loro interessi amorosi, e Alessandro si lasciò sfuggire che nella seconda ricreazione avrebbe fatto leggere una poesia d'amore alla sua cotta. Martina fece un verso stridulo per manifestare quanto fosse felice della cosa, insomma, uno sclero. Nessuno lo notò, tranne Margherita, che si avvicinò a loro e lo costrinse a dirle tutto. Anche lei fece quel verso, ma tre volte più forte.
Erano dalle 7:15 di quella mattina che lo assillava continuamente sulla sua "crush", sempre se stavano parlando della stessa persona. Sapeva che prima o poi lui avrebbe fatto uno di quei gesti romantici che ammaliavano ogni persona con almeno un po' di cuore, e quel momento si presentava proprio ora. Nonostante le sue previsioni, era riuscito a non farle leggere la poesia per prima, e addirittura a non dirle il rischio che stava per correre. Bè no, ci era riuscito prima di quella chiaccherata.
Senza rendersene conto, la campanella suonò, facendo mutare il corpo di Alessandro in un terremoto di magnitudo 8,3. Dallo zaino prese un foglio bianco con su scritto le parole che avrebbero potuto sgretolare la sua integrità come una meteora contro l'atmosfera terrestre, e accompagnato da una felpa blu e da dei jeans fin troppo lunghi per lui, porse il suo cuore sulle mani della ragazza in fondo all'aula.
Non capiva come gli altri ritenessero brutta una persona adorabile, carina ed esaltante come... come lei. Era maldestra, disorganizzata, senza un briciolo di pudore, eppure lui la fissava, "venerava" i suoi pensieri rimbombanti durante le lezioni di Cittadinanza e Costituzione, che non facevano altro che innervosire la loro professoressa, conoscente di a malapena la metà degli articoli della nostra Costituzione.
Nelle giornate assolate era letteralmente splendente, sembrava ardere in mezzo alle persone per colpa dei capelli colorati allo stesso modo dei luminosi occhi, cioè cioccolata calda in contrasto alla neve, la sua pelle delicata e tinta di acromatici colori primari.
Adesso, Alessandro poteva ammirarla da vicino, poteva felicemente guardarla mentre leggeva quel pezzo di carta.
Quando ebbe finito alzò la testa, lo scrutò per qualche secondo, frugandosi nelle tasche, tirando fuori un piccolo accendino. Lo accese, e un rogo nacque nella grande stanza, il cui condannato non era solo il suo foglio, ma anche lui stesso.

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