Il giorno in cui Maia aveva fatto ritorno dal Dorso dei Giganti, il suo cadavere aveva attraversato le vie di Gardros coperto da un telo bianco, insieme ai corpi dei suoi compagni. Le braccia lungo i fianchi, lo scudo fissato sui seni, la borchia opaca che riluceva nel crepuscolo.
Nessun soldato, a meno che non si fosse effigiato di un'impresa degna di essere ricordata, aveva mai meritato un simile trattamento. Nemmeno i funzionari più alti in carica, i condottieri o i generali, venivano graziati di tale favore se non avevano dimostrato di meritarlo nel corso della carriera.
Maia non aveva medaglie.
Maia aveva solo un cuore incandescente e una spada sguainata fra le molte, e sarebbe dovuta rimanere lì dove Ecubash l'aveva reclamata: un corpo bruciato su un'anonima pira, per divenire cenere e restituirsi al ventre della terra, tramutarsi in germogli, alberi e fiori.
L'unica cosa che Maia possedeva era la parola di Kytos: non sarebbe caduta, ma se fosse caduta il futuro sovrano di Gardros non l'avrebbe lasciata precipitare nel grigiore della dimenticanza. Non sarebbe caduta, ma se fosse caduta avrebbe indetto una cerimonia nella piazza principale per commemorare lei e le vittime della spedizione. Non sarebbe caduta, ma se fosse caduta Kytos l'avrebbe portata con sé. E mai, mai l'avrebbe dimenticata.
Infine, Maia figlia di uno stalliere, valchiria delle nevi, capelli come i flutti di un fiume torbido, era caduta, perché la sua unica colpa era stata nascere nella famiglia sbagliata. Lì, fra quelle vette di cristallo che si stagliavano contro il cielo plumbeo, i ghiacci si erano abbeverati del suo sangue.
Kytos osservò il Dorso dei Giganti, la pietra martoriata dalle raffiche di vento. Le folate sibilavano tra le fessure rocciose, ululando quando si tuffavano sulla spianata. Di tanto in tanto, da essa si libravano mulinelli di brina.
Gli eserciti si fermarono e i vessilli di Gardros vennero piantati.
«Ci accamperemo qui» decretò Alpyos.
I preparativi per il quartier generale e gli avamposti richiesero diversi giorni, sotto gli occhi impietosi del Dorso. Giunsero gufi, rapaci e colombe a recare missive dai nove regni. Al Almas la Splendente e Suwei erano in viaggio, la piccola Lebrakha metteva a disposizione le sue poche milizie, gli elefanti di Owena stavano attraversando i monti di Gardros. A seguire, sarebbero giunte Tresotia e La Plata. Solo le isole Zeeland, il fitto arcipelago che dominava il Mare di Ör, protetto da svariate miglia d'acqua, non temeva a sufficienza i giganti da impiegare più delle forze strettamente necessarie.
Ma tutti, nel martellio dei picchetti, tra le colonne di fumo, lo scalpiccio degli zoccoli e il tintinnio delle armi, si ponevano la medesima domanda: chi, fra le nove corone dell'Espen, avrebbe tradito? Chi si sarebbe schierato con i mostri che vivevano oltre il Dorso e li avrebbe scagliati su quelle terre per impadronirsene?
I dubbi si infransero nel clangore di lame che vibrò per l'accampamento. Kytos si slanciò in un affondo diretto al fianco del ragazzo, che lo schivò per un soffio. La secca rotazione del busto lo fece sbilanciare e il giovane si ritrovò a terra, a gambe all'aria. Il principe piantò la lama nel fango e gli fu sopra con un paio di falcate. Lo scrutò dall'alto, con il cipiglio inespressivo di un condor che stava per sbranare la carogna puntata dal cielo.
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Bianca come il gelsomino
FantasyCOMPLETA | La principessa Eve è affetta da albinismo. Per questo, suo padre la condanna a una vita di clausura in un monastero affinché sia al riparo dai raggi del sole e dalle tentazioni. Durante il viaggio che la conduce a destinazione, però, la s...