V

1.7K 229 112
                                    

Levi

Dopo il litigio e la riappacificazione, Eren aveva cominciato a comportarsi in modo strano. Sorrideva sempre più raramente, il suo umore era più cupo di quanto non lo fosse il mio (ed Eren era la persona più solare che io conoscessi) e poi mi guardava, o meglio mi fissava, con insistenza come a voler analizzare ogni mia singola mossa, espressione, azione.

Ero a lavoro quella sera. Per pagarmi l'affitto e le rate universitarie, dopo che mio zio Kenny, divenuto il mio tutore legale alla morte dei miei genitori, mi aveva abbandonato a me stesso appena avevo compiuto diciotto anni, avevo trovato impiego come cameriere in un piccolo bar. Tutte le sere ero lì, tranne il venerdì, e Eren spesso veniva a trovarmi, anzi sarebbe più corretto dire "a disturbarmi", insieme a qualche suo amico. Quel mercoledì però era da solo e si era seduto al bancone. Aveva ordinato una semplice birra, che stava mandando giù con lentezza. Di tanto in tanto, mi lanciava qualche sguardo.

«Non sarebbe meglio che tu tornassi a casa e ti riposassi? Domani abbiamo lezione alle 8» gli consigliai. Aveva un aspetto che, se possibile, era peggiore del mio: sembrava stremato, senza forze, e che sarebbe potuto crollare e addormentarsi sul bancone da un momento all'altro.

«Non sono stanco» rispose.

Inarcai un sopracciglio. «Stai sbadigliando da quando sei arrivato» gli feci notare, «e hai due orribili borse sotto gli occhi.»

«Colpa dello studio» provò a giustificarsi e scrollò le spalle.

«Ma se non studi mai!»

Restò fino all'orario di chiusura, che in settimana non andava oltre la mezzanotte. Insistette per accompagnarmi con l'auto, nonostante io abitassi a meno di dieci minuti dal locale. Non disse quasi nulla durante il tragitto, ed era una cosa alquanto strana per Eren che, di solito, vomitava parole fino a farmi venire il mal di testa.

Arrivati davanti casa mia, prima di scendere, mi voltai verso di lui e presi a scrutare il suo profilo. Sembrava pensieroso e neanche fece caso al mio sguardo insistente. C'era qualcosa che non andava dal giorno in cui aveva rivisto Mikasa: che fosse successo qualcosa con lei?

Decisi di provare a chiederglielo. «Eren, che hai?»

Lui continuò a tenere gli occhi fissi davanti a sé. «Niente, non preoccuparti. Forse dovevo seguire il tuo consiglio e andar via prima perché avevi ragione, sono molto stanco.»

«Questo l'avevo capito» dissi, «ma c'è qualcos'altro.»

Le sue mani strinsero forte il volante. «Te l'ho detto, non c'è nient'altro.»

Non ne ero affatto convinto, ma decisi di non insitere oltre. Lo salutai augurandogli la buonanotte e dandogli appuntamento all'indomani.

🌺

Passò un'altra settimana e la mia salute stava peggiorando giorno dopo giorno sempre più. Mi sentivo debole, non riuscivo a reggere i ritmi dell'università e del lavoro, e continuavo a sputare petali. L'Hanahaki mi stava consumando velocemente e presto Eren non sarebbe stato più l'unico a sapere del mio segreto perché i suoi sintomi iniziavano ad essere visibili a chiunque. Non potevo mentire a lungo usando ancora scuse poco credibili: Hanji, la persona per me più importante dopo Eren nonché ficcanaso esagerata, aveva già cominciato a indagare sul mio stato di salute.

Quel martedì Eren e io ci eravamo rintanati in biblioteca: la sessione si stava avvicinando e, nonostante non ero sicuro di riuscire ad affrontarla prima che la malattia mi uccidesse, mi ero ripromesso di continuare a vivere come avevo sempre fatto. Non volevo cambiare la mia routine, mi ci trovavo bene: il lavoro e lo studio mi tenevano la testa impegnata, allontanando così il pensiero di quello che mi stava capitando, e inoltre avevo la possibilità di passare molto tempo in compagnia di Eren. E ciò mi rendeva felice.

Hanahaki Disease || EreriDove le storie prendono vita. Scoprilo ora