Codardo

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settembre 1998
Codardo

Le pietre sono sempre le stesse, i corridoi sempre infiniti, le fiaccole sempre eterne.
Il castello si staglia ancora maestoso tra le braccia di tramonti lontani e tra i misteri di notti senza stelle.
Non è cambiato niente.
E' come se questa assurda guerra non fosse mai stata combattuta, come se le persone non fossero morte.
Io sempre nero e sfuggente, il mondo sempre a schivare uno sguardo immobile che non ha mai saputo confessarsi.
Eroe.
Cosi mi chiamano.
Eppure non smettono di avere paura.
Sono cosi abituato a nascondermi nell'ombra da sentirla mancare.
Sono di nuovo seduto ad una vecchia cattedra stanca, ad insegnare una vecchia materia stanca, agli stessi studenti più vecchi e più stanchi.
Qualcuno ha deciso di tornare, altri no.
Su alcuni di loro questa guerra ha lasciato segni indelebili, su altri è solo passata di striscio.
Ma il tuo viso è diverso adesso.
L'insopportabile ragazzina con la mano perennemente alzata è volata via.
Ha lasciato il posto ad una donna piena di rimpianti, di attimi mancati.
Mi guardi ma non mi vedi.
Forse il tuo sguardo è ancora là, in una casa diroccata e piena di polvere vecchia di secoli.
Le tue mani sono ancora sul mio collo, il mio sangue ancora tra le tue dita di bambina, le tue urla ancora ad infrangersi contro le pareti crepate di una catapecchia in rovina.
Mi hai salvato in quella notte di orrore.
Hai lottato contro una morte che sembrava più forte di te.
E hai vinto.
Ostinata, saccente, testarda, piccola grifondoro.
I miei ricordi lanciati negli occhi di un mondo cieco, quei ricordi che ho affidato ad un ragazzino in trappola, pensando di esalare l'ultimo respiro.
Non sarei dovuto sopravvivere.
Un eroe sta bene da morto.
Un eroe non si aggira a raggelare sotterranei già gelati.
E' passato troppo tempo.
Questa maschera è l'unica faccia che ho.
Forse il mondo si aspettava qualcosa di diverso.
Ma sono trascorse troppe notti piene di fantasmi e troppe albe piene di rimorsi.
E adesso sono qui e ti guardo.
E tu mi guardi ma non mi vedi, di nuovo.
"Sei la cosa più simile a me, anche se ti ostini a non volerlo sentire" così mi hai detto quando gli altri mi chiamavano traditore.
Si, perché tu hai visto oltre.
Tu hai sempre visto più degli altri.
Hai sempre visto più di me.
In quella notte in cui ti ho seguita in biblioteca mentre cercavi ostinatamente di riempire la tua mente di nozioni inutili, appiccicate lì di fretta.
Sei la cosa più simile a me, hai ragione tu.
Entrambi a cercare risposte tra i libri scritti da qualcun altro mentre il mondo fuori è troppo impegnato a vivere.
Io e te non lo abbiamo mai fatto.
Vivere.
Abbiamo letto delle vite di altri, dei sogni di altri, degli amori di altri.
Mentre io amavo un fantasma morto e tu un fantasma ancora vivo.
Non ero pronto, Hermione.
Forse non sono pronto, Hermione.
Sono solo un uomo dal passato indelebile, dal presente glorioso e dal futuro fragile.
E adesso sono stanco.
Senza una missione da compiere, senza un ragazzo da dover salvare.
Senza l'amico che ho dovuto uccidere.
Senza una ragazzina dagli occhi troppo grandi che mi osserva chiedendomi di lasciar cadere la maschera.
Non ti ho parlato quella notte.
Mi sono girato e sono andato via.
Come ho sempre fatto.
Come ho sempre dovuto fare.
E adesso il male è morto.
Il ragazzino fastidioso che ho protetto per tutta la vita ha messo fine all'incubo di questo mondo.
E io mi ritrovo libero in una vita che non sono capace di vivere.
Se non fossi un codardo ribalterei questa scrivania, percorrerei questa stanza umida e ti chiederei di insegnarmelo, a vivere.
Non so farlo.
Sono così abituato a nascondermi, Hermione.
La campanella suona.
La lezione è finita e i miei studenti scappano, come sempre, verso una libertà celata da una porta di legno scuro.
Tutti, tranne te.
Resto immobile, ti guardo,
Mi guardi anche tu, adesso mi vedi.
Sorridi.
Io resto impassibile.
Ti avvicini.
Appoggio pesantemente la schiena alla poltrona mentre incrocio sul tavolo le mie mani troppo bianche.
Un ghigno di scherno.
Mi difendo dietro l'unica maschera che conosco.
E tu te ne freghi, ancora una volta.
Di me, delle mie maschere, dell'aura di terrore che mi porto dietro da sempre.
Te ne freghi e ti siedi sulla mia scrivania.
Come se si potesse fare, come se lo avessi sempre fatto.
E io vorrei allontanarti sibilando parole gelate.
Non lo faccio.
Non so nemmeno il perché.
O forse lo so, e ho paura.
-    "Adesso cosa facciamo professore?"
Ti guardo, socchiudo gli occhi.
Vorrei farti tremare di terrore.
Non ci riesco.
Non sono più così bravo.
O forse sei diventata più brava tu.
Mi alzo di scatto dalla sedia, lascio che sbatta violentemente contro l'infinita parete di libri che mi protegge da anni .
Mi allontano verso una porta che dovrebbe nascondermi.
Che non può nascondermi.
Ridi.
Quasi sguaiatamente.
Così forte che temo tutti possano sentirlo.
Nessuno ride in questa stanza, mai.
Mi fermo, i pugni stretti.
Non mi volto.
-    "Aveva ragione Minerva, sei un codardo professore"
Mi giro lentamente.
Ti guardo.
La guerra non ha lascito più tracce di quella ragazzina.
L'ha uccisa.
Faccio un passo verso di te.
Resti ferma, incroci le mani sul petto.
Mi sfidi.
Mi avvicino.
Non riesco a distogliere lo sguardo dalle tue iridi nocciola.
Adesso tradiscono un riflesso di ansia.
Sei brava ragazzina.
Ma non quanto me.
Un altro passo.
Non ridi più.
Mi guardi e basta.
Prendo le tue mani, sciolgo il nodo delle tue braccia.
Quel nodo che dovrebbe difenderti.
Che non ha saputo difenderti.
Sollevi il viso, cacciando indietro la paura con ogni briciolo di forza.
Ho paura anch'io ma tu non puoi vederlo.
Nessuno può.
Nessuno ha mai potuto.
Sono addestrato per questo.
Libero le tue mani.
Con un dito ti sollevo il mento.
Vorresti poter piangere.
E forse vorrei che tu lo facessi.
Dandomi una ragione palpabile per fermarmi, per non baciarti adesso, in un'aula di pozioni deserta sul fondo di un castello appena rinato.
Non lo fai.
Insopportabile, testarda, orgogliosa, piccola grifondoro.
E allora ti bacio, poggio le mie labbra sulle tue.
Non sono un codardo, non lo sono mai stato.
Non lo sarò neppure adesso mentre tremo di paura.
Mentre ogni mia certezza vacilla al tocco delle tue labbra troppo giovani, troppo screpolate e troppo innocenti.
Mentre le mie così vecchie, sudice e stanche non bramano altro che di averti ancora.
Lascio che la mia bocca si schiuda alla richiesta della tua.
Non sono un codardo.
Le tue mani si intrecciano dietro al mio collo, le mie scivolano sui tuoi fianchi.
Mi permetto di assaporarti per un istante.
Poi ti allontano.
Mi guardi.
Sorridi.
-    "La lezione è finita, signorina Granger"
Sibilo.
Poi sorrido anche io.
E' un sorriso piccolo, tirato.
Ma tu lo hai visto.
Mi giro, varco la porta del mio studio.
Ti allontani correndo.
Sento i tuoi passi nel corridoio.
Non sono un codardo.
Non lo sono mai stato.
E credimi, Hermione, non lo sarò neppure domani.

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