6: Il Maniero

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Quella notte, la pioggia batteva incessante a Chamberlain, un piccolo paesino di campagna nella periferia della Louisiana.
Guidai con cautela nelle sue strade allagate e accidentate all'interno della mia Volkswagen bianca dell' 87, cercando con fatica di scorgere la strada che proseguiva oltre la coltre di pioggia che precipitava solida davanti a me come un muro d'acqua. Gli abbaglianti e i fendi-nebbia non servivano quasi a niente.
Le strade del paesino erano totalmente oscurate, la corrente mancava praticamente dappertutto e pensai che fosse saltata a causa dei frequenti fulmini che venivano giù; alcuni di essi li notai a breve distanza. I fusti luminescenti cadevano giù dal cielo con furore divino, ramificandosi come grotteschi alberi distorti e scheletrici. Non duravano neanche un secondo ma era sufficiente per abbagliarmi in un istante in cui strinsi le palpebre e deviai lo sguardo di lato. I tuoni rombavano nell'aria come squarci dimensionali.
Le case, per lo più baracche fatiscenti, erano buie e silenziose. Non si notava nessun luminare accesso o qualcuno... una qualsiasi cosa. Sembrava un posto abbandonato da Dio.
Nonostante che la temperatura fosse a una ventina di gradi sopra lo zero, sentivo un innaturale freddo gelarmi le ossa. Mi sentivo suggestionato dal fatto che le Potenze non mi volessero lì, che ero d'intralcio ai loro piani. Tutto di quel posto mi sembrava ostile, come nel volermi scacciare: i fulmini sempre più vicini (nell'intento di colpirmi?), i tuoni che mi ruggivano contro, la totale oscurità e la pioggia incessante che sferzava il tettuccio della mia macchina come fosse una mitragliatrice.
La cosa mi dava i brividi ma non potevo cedere, dovevo arrivare da Edgar, lui poteva conoscere le risposte. Lui poteva far chiarezza su i miei incubi e su Colui che in quel momento non osava pronunciare il nome. Neanche pensarlo.
Dopo una ventina di minuti arrivai al declivo che si allontanava dal paese e raggiungeva un viottolo stretto e accidentato che procedeva per il sottobosco. Li la pioggia dava finalmente un po di tregua grazie al tetto naturale delle betulle, i pini e le alte sequoie che affiancavano il percorso. Ma l'assenza parziale di pioggia lasciò il posto alle inquietudini della selva intricata, oscura e silenziosa del sottobosco.
D'improvviso poi, dopo quasi una quindicina di minuti, quel silenzio reverenziale fu interrotto dal bubolare tipico di un gufo. Sobbalzai vistosamente, arrancando col manubrio. Il verso era così vicino a me che temetti di ritrovarmelo sul sedile posteriore se mi fossi girato. In quel momento pregai di arrivare il prima possibile.
Qualcuno ascolto la mia "preghiera" e dopo un altra decina di minuti finalmente arrivai al maniero vittoriano di Edgar.
Sapevo che anni fa lo aveva completamente abbondanto, dopo la sua esperienza aveva lasciato di fretta e furia il New England maledicendolo e giurando di non farne più ritorno ma sapevo che da qualche mese era tornato. I motivi mi erano ignoti, mi aveva spedito qualche lettera, molte settimana fa, in cui mi chiedeva di raggiungerlo il prima possibile al vecchio maniero ma non ci feci peso all'ora. Sapevo che non ci stava più con la testa, da quando ebbe l'ossessione dei suoni e del brusio di voci dall'altrove qualora cessassero.
Avrebbe dovuto essere ricoverato al manicomio di Arkam ma riuscì a mostrarsi sano di mente durante le sessioni degli psichiatri, fingendo solo di balbettare per avere sempre vicino a se il metronomo.
Una volta mi scrisse confessandomi che quel ticchettio continuo lo aveva salvato e che se non fosse stato per il metronomo le Potenze lo avrebbero trovato e condotto in regioni d'inferi, dove essi dimorano.
Da quando mi scrisse quella lettera e molte altre ancora dopo, in cui mi esponeva i suoi tentativi di rimanere in vita tramite il suono, compresi che era completamente pazzo e di conseguenza, tutto ciò che mi diceva, lo prendevo come frutto del suo delirio. Ma ora, dopo tutto quello che mi era successo... avevo bisogno di lui.
L'edificio, pur se manteneva ancora i lineamenti architettonici eleganti e signorili tipici dell'età Vittoriana, era completamente in sfacelo. Una folta edera aveva divorato metà facciata arrivando fino alla tettoia e le finestre erano per lo più rotte o assenti. Il folto giardino che circondava la casa, all'interno della recinzione murale, era abbandono a se stesso ormai da anni. L'erbaccia e le sterpaglie crescevano indisturbate divorando tutto.
Mi fermai un attimo con l'auto all'ingresso, fissando attonito e incredulo questo scenario di pietosa decadenza. C'era un ampio cancello di ferro arrugginito aperto, oltre il quale, un piccolo sentiero che attraversa il giardino fino alla veranda.
La pioggia era più pacata ma comunque insistente. I tuoni erano sempre più lontani. Mentre procedevo con la macchina cercai di scorgere qualche luce che potesse indicare la sua presenza e fui lieto quando, una volta avvicinatomi di più, notai della debole luce tremolare all'interno. Era prodotta sicuramente da delle candele, pensai.
Arrancai con l'auto per il viottolo a causa dell'erbaccia alta che l'aveva quasi del tutto cancellato in alcuni punti, ma alla fine riuscii ad arrivare alla veranda. Scesi dell'auto e corsi alla porta a causa della pioggia battente. Feci quasi per bussare, alzai la mano in pugno quando notai che la porta era già aperta. Era lasciata leggermente socchiusa.
La spinsi piano in avanti, sopportando il suo tremendo cigolio del tutto simile ad unghie che graffiano una lavagna.
<<Edgar>>, chiamai, evitando volutamente di alzare troppo la voce. << Edgar William Wakefield>>, insistetti.
<<Sono io, Ernest Brown>>, informai mentre continuavo a procedere.
Notai con disappunto che la stessa decadenza di fuori si rispecchiava anche all'interno. Le pareti in assi di legno erano marce, rigonfiate a causa dell'umidità, quel poco intonaco rimasto attaccato ad esse era ricoperto di muffa.
Per fortuna la stanza era in penombra delle candele e non potei notare troppo, più che altro sentivo... squittii di topi che attraversavano il pavimento nell'ombra.
Avrei desiderato più di qualunque altra cosa voltarmi e scappare via, il più lontano possibile, ma ormai ero lì e dovevo andare fino in fondo.
<<Edgar! >>, chiamai, stavolta un po più forte. <<Sono Ernest! >>
Fu in quel momento che mi accorsi che non sentivo nulla, a parte la pioggia insistere fuori. Tutti i suoni utilizzati che mi erano stati descritti parevano assenti. Pensai che non ci fosse nessuno, che magari un tuono troppo forte e rumoroso aveva spaventato la sua fragile mente e che ora stesse corredo urlando nel bosco, sotto la pioggia, in preda la panico. Era possibile, ma di certo non sarei restato lì ad aspettarlo. Quel posto era troppo inquietante per me.
Mi voltai indietro intento ad andarmene quando sobbalzai con un urlo feroce nel vedere un uomo in penombra che sbattè la porta alla sue spalle.

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