Capitolo 4

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Le crisi erano cominciate all'età di 10 anni, ma erano sporadiche, non si presentavano mai più di una volta ogni quattro mesi.

La prima volta che accadde, Nathan stava dormendo, era pomeriggio e il bambino stava facendo il suo sonnelino pomeridiano sul divano del salotto, Alex era seduto accanto a lui e lo fissava nel sonno, vegliandolo. Evelyn era in cucina che scriveva sul suo portatile una e-mail: da quando era nato Nathan aveva abbandonato il suo lavoro per prendersi cura di lui in ogni momento... anche perché lui non era bambino normale.

E quel giorno ne ebbe la conferma.

Nathan aveva aperto gli occhi e aveva iniziato a tremare, chiamando la madre quasi come se stesse soffocando. Poi iniziò a piangere, ma Evelyn non sentiva niente.

Il bambino guardava fisso il soffitto, il respiro era veloce e non ritmico.

Duro soli pochi secondi.

Il tempo che i polmoni si riempissero d'aria e Nathan squarciò il silenzio con un urlo così potente che i vetri tremarono. Il corpo si ripiegava su sé stesso come se stesse soffrendo.

Evelyn corse dalla cucina fino al salotto con il cuore in mano. Vide il figlio come mai aveva visto prima: le mani strette contro la gola, la bocca spalancata e gli occhi da cui scendevano lacrime di sangue. Il suo volto era deformato, non era quello di un bambino.

La donna si precipitò su suo figlio e iniziò a pregare come mai aveva fatto, cullando Nathan sulle gambe e stringendogli la testa contro il petto.

Il gatto miagolava cupo e soffiava contro il padroncino.

«Va tutto bene...» sussurrava la donna sul punto di piangere.

Doveva chiedere aiuto, ma a chi? Né lei, né Joseph, né un comune dottore avrebbero potuto fare qualcosa per suo figlio.

Alex miagolò per un'ultima volta prima che una luce rischiarò tutta la casa. Evelyn chiuse gli occhi e strinse il suo bambino più forte, continuando a pregare e intonando qualche canto scomposto dal pianto e dai singhiozzi.

La luce si ritrasse formando la figura di un giovano alto e bello come il sole, dai capelli e occhi bianco argentei, il suo volto mai turbato era segnato da una ruga sulla fronte che lo faceva apparire addolorato. Senza nemmeno dire una parola strappò dalle mani della donna il bambino e lo cullò tra le sue braccia.

«Adesso andrà tutto bene, Jonah.»

Evelyn si portò le mani agli occhi incapace di fare qualcosa, meritandosi un'occhiataccia da parte del Grande Angelo.

«Renditi utile, Prayer!» Alexander si allontanò dalla donna. «Jonah, va tutto bene, non ti preoccupare, ci sono qui io.»

Nathan tremava, gli occhi guardavano il soffitto inanimati.

Alexander gli baciò la fronte e strinse quel corpo così freddo tra le sue braccia calde. «Non aver paura.»

A guardali bene, sembravano due fratelli, il maggiore che consolava il minore dopo un incubi. Ma Alexander non provava un amore fraterno, qualcosa di più forte gli stringeva il cuore insieme all'angoscia del momento, di vederlo così sofferente.

Prese un grande respiro e intonò un canto che nessun umano aveva mai sentito, con una voce talmente tanto calda che poteva sciogliere il ghiaccio. Muoveva i piedi al ritmo di quella voce in un valzer lento. Erano parole sconosciute le sue, ma Jonah le conosceva meglio di chiunque altro perché era stata composta da lui quella canzone e Alexander la riportava in vita con il suo canto.

Il piccolo Nathan si lasciò andare tra le braccia del ragazzo, chiudendo gli occhi e assopendosi come se niente fosse accaduto. Alexander sorrise e continuò a cullare il bambino.

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⏰ Ultimo aggiornamento: Mar 14, 2019 ⏰

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