Quel cesso sudicio, cardine del nostro racconto, stava in un remoto angolo del ghetto di Nuova New York. Un cesso lercio, che nessuno avrebbe trovato, a meno che non sapesse dove cercare. E stava proprio lì, alla fine di un corridoio, nascosto da una vecchia porta in legno, che si trovava proprio alla fine del bancone della Kebabberia, si dice in giro, più lezza di NNY. Non vi erano clienti quel giorno; il proprietario era lì, seduto su una sedia, con i piedi sul bancone. Un uomo sporco, il kebabbaro, con dei bei baffi neri e folti, sporchi di sugo. L’aria era pervasa da un forte odore di carne e urina, e gli unici suoni percepibili potevano essere ricondotti al vecchio ventilatore, pigro tentativo del proprietario di scacciare il caldo prodotto dal forno, e alla televisione, appesa in un angolo sotto il vigile sguardo dell’arabo, che dava una telenovela in spagnolo. Stranamente quel forno, con lo spiedo girevole, poteva essere definito silenzioso, nonostante fosse più vecchio del proprietario. Quella carne, lì a girare da settimane, e in particolare il suo grasso sciolto, erano riusciti nel lubrificare il marchingegno. Un posto adeguato insomma, se l’obiettivo è contrarre malattie misteriose.
Nella calura di questo primo pomeriggio, la porta si spalanca di colpo, ed il tintinnio della campanella appesa al suo cornicione avvisa il proprietario dell’arrivo di qualcuno. Qualcuno che non sembra volere un kebwabwo gombledo. Gli occhi dell’assonnato proprietario si risvegliano, e di scatto drizza la schiena sulla sedia, assumendo una postura più dignitosa, pronto ad accogliere la nuova arrivata. Il sudore dei suoi grossi piedi, poggiati ora a terra, lascia un alone di sudicio sul ripiano.“Cosa volere ?” chiede il proprietario.
“M-Mio marito ha d-detto di venire da l-lei” balbetta la ragazza appena entrata, in un tono basso, appena udibile sopra il rumore del ventilatore.
“Cosa servire?” risponde di nuovo, nel suo caratteristico accento, il proprietario.
La giovane filippina, probabilmente non ancora maggiorenne, con i capelli neri, spettinati, con la faccia consumata dalla droga, si inoltra più in profondità nel locale.
Arrivata davanti all’uomo procede, con mani incerte, a slacciarsi gli ultimi bottoni del vecchio cappotto, che le copre il corpo dalle spalle alle ginocchia. Al 5° bottone, il kebabbaro comprende il motivo della visita, intravedendo la pancia caratteristica della gravidanza. Una gravidanza avanzata.
”Le ragazze stupide sono una benedizione” pensò l’uomo. Un’opportunità per racimolare qualcosa in questa fogna.“Ho capito” disse con tono sicuro il lercio, prima di afferrare lo spiedo del kebab con la sua grossa mano. Posizionando l’altra mano sopra quella che tiene lo spiedo, rimosso dal forno, procede a farla scorrere lungo il bastone d’acciaio, togliendo il grosso pezzo di carne, che cade sul piano di lavoro con uno “sploosh”, lasciando sullo stecco una patina d’olio.
La giovane, con occhi tremanti, fa un piccolo passo indietro, non pronta per quello che sta per accadere.
L’arabo, che con la canottiera un tempo bianca cerca di rimuovere l’oliaccio dallo spiedo, la guarda, e con un gesto della mano la guida verso quella porta, quella che nasconde il corridoio con il bagno. Nel farlo, proferisce due parole: ”Avere soldi ?”.
Il tremolio della ragazza, diventato ora quasi udibile, si intensifica ulteriormente. Con una presa instabile, agguanta qualcosa nella sua tasca, che tintinna. Dal solo suono, il proprietario comprende di cosa si tratta. Dell’oro, l’unica moneta che nel ghetto non perde mai valore. Nel tirare fuori l’oggetto, esso sfugge alla presa incerta della cliente, cadendo a terra. “ Collana oro, eh ?” constata silenzioso l’arabo, che rapidamente la raccoglie con il grosso spiedo.
“V-v-va b-bene ?” chiede lei, singhiozzante.
Il kebabbaro, con la reputazione di tuttofare del quartiere, si intasca il gioiello, senza proferire parola.
Senza nemmeno voltarsi, l’omone spinge, con il suo gomito calloso, un pulsante alle sue spalle. Un suono meccanico, una melodia in confronto alla telenovela spagnola trasmessa in loop alla televisione, riecheggia nel locale. Dopo pochi secondi, la melodia si arresta, senza aver prodotto nessun apparente risultato. L’unico elemento fuori posto è quel cartello, appeso alla porta, che ora mostra all’esterno la scritta “CHIUSO”, illuminata dai neon. Giusto, anche quella porta, quella con il cartello, che non si muoverà più di un millimetro, fino a che il pulsante non sarà premuto nuovamente.
Con la sua arma impropria, e un fare da galantuomo, il kebabbaro spalanca la porta per la signora, che a questo punto si regge a malapena in piedi. Sembra abituato, probabilmente non è la prima volta che esegue questa procedura. Una volta che la vecchia porta in legno si fu chiusa dietro loro, un possibile cliente avrebbe potuto udire la fievole voce della ragazza chiedere “F-f-farà male?”. Ma nessuno era lì, ad intervenire una volta che le urla iniziarono. Gli eroi non possono salvare tutti.Fu così che quel feto, strappato alla madre senza il suo consenso, fu gettato nel cesso sporco e incrostato della kebabberia di Abdul. Dato per morto - dopotutto un bambino non può sopravvivere ad un parto prematuro in tali condizioni - fu abbandonato. Ma quel bambino, e quella sua voglia di vivere caratteristica degli abitanti del ghetto, erano stati sottovalutati. Si era aggrappato alla vita, sopravvivendo alla discesa nelle fogne. Ancora incapace di vedere, il bimbo scivolò tra le tubature, ed arrivò in quella che sarebbe diventata la sua culla: i sotterranei della città.
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GATOR - The beast within
FantastiqueL'opera segue Gator, un giovane con un'infanzia impossibile, che acquisisce in modo anomalo capacità straordinarie. Sarà capace, in questo mondo di natural-born hero, di affermare se stesso e ottenere il riconoscimento degli altri ? Storia dark, non...