Sicurezza.

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Una nave nel porto è al sicuro, ma non è per questo che le navi sono state costruite.
(John Augustus Shedd)




Sana.

«Signorina Kurata, i suoi genitori non le hanno insegnato a rivolgersi al padrone di casa con il dovuto rispetto?»
Gli rivolsi uno sguardo malefico, quasi immaginando che bruciasse davanti a me. «No, i miei genitori purtroppo mi hanno insegnato solamente ad abbandonare le cose, come hanno abbandonato me, signore.» dissi pungente.
Lui rimase in silenzio per qualche secondo e ci ritrovammo a studiarci, con gli occhi serrati, le labbra in una crepa invisibile.
Sentivo il suo astio, ma non verso di me, lo sentivo verso chiunque non fosse all'altezza delle sue aspettative.
«Vedo che anche lei ha avuto una vita non facile.»
Annuii, spostando lo sguardo mentre lui mi faceva volteggiare per la sala – con non poco imbarazzo da parte mia, perché non ero capace di azzeccare un passo o di tenere il tempo di quel maledetto lento.
«Akito le ha raccontato un po' di lui?» chiese, per poi schiarirsi la voce. «Di me?»
«Ne so abbastanza.»
Quelle parole lo misero in difficoltà, lo notai immediatamente dal cambiamento del suo sguardo. Mentre mi rimproverava per il mio tono i suoi occhi erano fieri, determinati, in quel momento invece sembrava tutto tranne che un uomo malvagio.
«Akito mi ha creato non pochi problemi durante l'adolescenza, non sono il mostro cattivo che leavrà sicuramente descritto.»
«Quale adolescente non crea problemi? Non pensa che dovrebbe semplicemente accettare che a suo figlio il solo pensiero di fare l'avvocato fa venire il voltastomaco?»
«Non ha peli sulla lingua, mi piace.»
«Penso semplicemente che Akito si meriti una famiglia vera e non questa specie di circo degli orrori a cui lo costringete.»
«Io e Akito non ci siamo mai veramente capiti, ma questo non significa che mi tirerei indietro se lui avesse bisogno dime.»
A quell'affermazione non riuscii più a trattenermi. «E dove diavolo eravate quando suo figlio è stato pestato a sangue e non è riuscito ad andare a lavoro per due settimane?»
Capii immediatamente che di tutto ciò che io stavo dicendo lui era assolutamente all'oscuro. Akito non gli aveva detto niente, eppure sua sorella lo sapeva, perché non lo aveva raccontato a suo padre?
«Non... non ne ero a conoscenza, signorina. Hanno scoperto chi è stato?»
Scossi la testa, pentendomi immediatamente di non essermi fatta gli affari miei. Mi maledissi per aver parlato troppo, rivelandogli qualcosa che Akito stesso non aveva voluto dirgli.
Lo guardai per un secondo, quasi sentendomi in pena per lui, perché in realtà non odiava Akito, era solamente un padre che non riusciva a capire il figlio, che lo avrebbe voluto come lui e che invece aveva dovuto convivere con una scelta diversa.
Ma non era neanche giusto costringere qualcuno solo per il proprio orgoglio.
«Akito è una persona difficile, signorina Kurata, non creda che sia un santo.»
«Nessuno è un santo. Ma bisogna anche imparare a capirsi ogni tanto.»
Gli feci segno con gli occhi di allontanarsi, perché altrimenti me ne sarei andata io. Mi sembrava assurdo che lui lapensasse in quel modo e non riuscivo più a reggere il suo sguardo accusatore, in più sentivo gli occhi di Akito bucarmi la schiena.
Fortunatamente la musica si arrestò in quello stesso momento e, seppur con qualche perplessità, il padre di Akito mi lasciò andare e io tornai da suo figlio.
Mi accomodai accanto a lui, in totale silenzio, e rimanemmo senza dire nulla per un bel po'.
Poi Akito mi afferrò per il braccio e mi trascinò all'esterno, verso l'enorme giardino di casa sua.

Akito.

Camminavamo senza dire una parola, io incapace persino di respirare e lei impacciata su quei tacchi vertiginosi.
Il vestito che indossava faceva si che al buio la sua pelle sembrasse ancora più chiara, e per poco non mi gettai ai suoi piedi pregandola di guardarmi, una volta sola, come io guardavo lei.
Ma non ero così disperato, o per lo meno non potevo permettermi di esserlo, perché Sana non si sarebbe mai lasciata convincere da moine e paroline dolci, lei era una di quelle donne che cerca la concretezza, anche se il suo atteggiamento nei miei confronti mi faceva capire che non le ero indifferente.
Allora perché era sempre così distaccata? Perché non si lasciava avvicinare da niente e nessuno?
Era come una statua dentro a un museo, bellissima, ma intoccabile. E più la guardavo, più notavo quei piccoli dettagli che la rendevano unica, più mi rendevo conto che Sana Kurata apparteneva proprio ad un altro pianeta.
Voltai lo sguardo verso di lei, che camminava a testa bassa al mio fianco come terrorizzata da ciò che avrei detto o da ciò che avrei potuto fare, e prolungai la sua agonia per qualche secondo salvo poi bloccarmi in mezzo al giardino e afferrarla per il braccio.
I suoi occhi divennero più scuri del solito e, non appena la feci poggiare con le spalle verso una siepe, la vidi quasi diventare di ghiaccio.
«Rientriamo, Akito?»
«Cosa ti ha detto mio padre?» chiesi senza mezzi termini e notai subito il suo cambio di sguardo. Passò dall'essere spaventata all'essere terrorizzata, e non sapevo come farle capire che non doveva avere paura di me.
«Niente di particolare, mi ha rimproverata per come mi ero rivolta a lui, tutto qua.»
«Quello stronzo!» urlai, «Ma chi si crede di essere?» e feci per tornare dentro e gonfiarlo di botte,ma Sana mi afferrò dal bavero della giacca e mi bloccò davanti a lei.
«Che diavolo fai, vuoi picchiare tuo padre davanti a tutti? Non è stato scortese, solo molto severo.»
«Non aveva il diritto, comunque.» tuonai, alzandola voce più di quanto avessi voluto e attirando gli sguardi di coloro che se ne stavano sul balcone che dava sul giardino.
«Lascia perdere, adesso rientriamo, facciamo come se non fosse successo niente e, finita la festa, ce ne andremo senza prendere a pugni nessuno. Intesi?»
Quel suo parlare di me e di lei come un noi mi fece quasi passare la rabbia, poi mi sfiorò impercettibilmente la mano e quel suo gesto bastò per far scivolare via tutto ciò che di negativo stavo provando in quel momento.
Era come una sorta di acchiappa sogni, si prendeva tutto il male e mi faceva fare sonni tranquilli.
Sana fece un passo avanti per tornare in casa ma io prontamente la bloccai.
Mi tolsi la giacca in un attimo e gliela poggiai sulle spalle nude.«Prendila, hai la pelle d'oca per il freddo.»
Il suo viso sembrò rilassarsi, lasciare andare la preoccupazione e far tornare la fiducia, quel pizzico di fiducia chenutriva nei miei confronti.
«Grazie, signor Hayama.» scherzò, per poi superarmi e tornare dentro, stretta nella mia giacca e, se non avevo appena perso la vista, per un secondo l'aveva persino annusata.

***




Il silenzio era assordante.
Quell'espressione mi era sempre piaciuta, mi faceva sorridere, perché come può il silenzio essere assordante? Come possono due cose che non hanno nulla in comune, essere messe accanto, associate in un senso comune?
Sana non disse nulla per tutto il tragitto verso casa, ci limitammo a scambiarci qualche occhiata furtiva mentre la strada passava sotto leruote.
Più guardavo il suo quartiere, più mi veniva voglia di portarla a casa mia e non farla andare più via, perché anche solo il pensiero di tutte le sere che lei tornava a casa da sola mi faceva rigirare le budella.
«Mi spieghi perché una persona come te vive in un posto come questo?» dissi entrando finalmente nella stradinadi casa sua.
Sana alzò lo sguardo verso il suo palazzo disastrato, poi si stropicciò un occhio. «Perché, cosa c'è che non va?»
Inizialmente pensai fosse una domanda retorica per cui non risposi, solamente dopo qualche secondo mi resi conto che non stava affatto scherzando.
«Ma sei seria? Il tuo condominio cade a pezzi.»
«A me piace casa mia.»
«Non lo metto in dubbio, ma non mi sembra tanto adatto a te.»
Sana fece spallucce, ignorando nella maniera più assoluta qualsiasi mia remora. «E' tutto quello che posso permettermi al momento, signor Hayama.» disse chiamandomi dinuovo in quel modo che detestavo, perché mi faceva sentire troppo simile a mio padre.
«Allora forse dovrei considerare di alzarle lo stipendio, signorina Kurata.»
Le mie parole le provocarono una piccola risata, poi d'un tratto tornò seria e io pensai di aver detto qualcosa di sbagliato, qualcosa che l'aveva offesa. Ma poi raccolse la sua giacca, prese la sua borsa e mi rivolse un sorriso stentato, come a volersi congedare.
«Posso salire?»
Non sapevo nemmeno perché le avevo fatto una domanda simile, non volevo nemmeno salire in casa sua perché ero ben consapevole che certe cose finiscono sempre e solo in un modo e – non che io non volessi, anzi, lo desideravo disperatamente – ma ero certo che Sana non sarebbe stata d'accordo e che avrei potuto minare la fiducia, ancora traballante, che riponeva in me.
Eppure lei non si arrabbiò, per cui pensai di insistere.«Prometto di non avvicinarmi, davvero.»
Più che infastidita mi sembrò divertita dal mio goffo tentativo di intrufolarmi in casa sua, ma questo non la convinse comunque.
«Non penso sia il caso.» esclamò infatti poco dopo.
Aprì lo sportello, mi salutò con un cenno e, più misteriosa di come era arrivata, si diresse verso il portone.
Avrei dovuto aspettare che finisse l'intero maledettissimo week-end per poterla rivedere...
Era decisamente troppo tempo.

Sana.

Mentre cercavo le chiavi dentro alla borsa – che, stranamente, si trasformava in una specie di labirinto quando mi serviva qualcosa urgentemente – sentivo gli occhi di Akito dritti su di me e, forse anche per quello, non riuscivo a trovarle.
Maledizione! Imprecai tra me e me, quando prendendole tutto il contenuto della mia borsa si riversò a terra.
Mi sembrò quasi di vivere un deja-vu, e mi calai per raccogliere il tutto, quando due mani – e le avrei riconosciute ovunque – cominciarono ad aiutarmi.
«Non è necessario.» dissi più per mandarlo via che per non accettare il suo aiuto. Non riuscivo ad essere lucida con lui attorno e più le nostre mani si scontravano per raccogliere le cose, più il mio cervello mi dava il ben servito.
«Mi fa piacere.»
Ne approfittai per aprire il portone e tentare di catapultarmi dentro prima che le mie funzioni cerebrali finissero nel cesso, ma niente, Akito Hayama non voleva proprio scollarsi da lì.
«Sei proprio sicura che non vuoi che ti accompagni su? Non mi sembra un palazzo molto raccomandabile.» scherzò, tenendomi aperta la porta.
Annuii, sorridendo. «Sicurissima.»
«Bene, allora...»
Non feci in tempo nemmeno a dire buonanotte, che mi ritrovai il suo viso ad un millimetro di distanza dal mio.
A spaccarmi in due furono i suoi occhi, quello sguardo limpido di chi non ha secondi fini, di chi non vuole distruggerti ma solo ricomporre i tuoi pezzi, di chi ha solo voglia di esserci senza schiacciarti.
E per un secondo, mentre lui mi guardava in quel modo, pensai persino a come sarebbe stato lasciarmi andare con qualcuno come Akito, qualcuno che non avrebbe visto il giocattolo rotto che ero stata ma solo quello ricomposto, a fatica e in modo imperfetto, che ero diventata; forse non avrei mai potuto trovare di meglio.
Ma come avrei potuto?
Sentivo dentro di me che sarei stata in grado di fare qualsiasi cosa se lui non avesse mai smesso di guardarmi così, se ogni giorno della mia vita mi fossi svegliata con quegli occhi incastrati nei miei.
Forse per una volta avrei anche potuto lasciar perdere, abbandonare le mie paure e farmi trascinare... chiusi gli occhi.
Per una volta chiusi tutto fuori – le tenebre, il mio terrore – e lasciai entrare la luce – la sua luce – e mi tremarono le gambe.
Tremò tutto dentro di me, ma non durò a lungo.
Il calore che avevo sentito mentre Akito si avvicinava a me si arrestò immediatamente quando mi accorsi che si stava allontanando lentamente.
Fu come un morso in pieno stomaco, mi stava lasciando lì, proprio quando io avevo fatto cadere un mattone del mio muro.
«Non è il caso che io ti baci, non pensi?»
Che grande stronzo!
Sentii i suoi passi veloci, poi il rumore dello sportello della macchina e infine il silenzio.
Il silenzio attorno a me e il buio, di nuovo, dentro di me.
Lo odiavo, e lo odiavo così tanto che quasi mi faceva male fisicamente, che quasi mi spaccava a metà.
Rientrai in casa e, nel giro di cinque minuti, mi buttai a letto distrutta.
Sentii per un attimo tutte le ossa del mio corpo comprimersi, accartocciarsi piano piano per farmi capire che non avevo scampo.
Mi chiesi se fosse normale tutto quello, se tutte le persone almeno una volta nella vita sperimentavano quella sensazione e se a tutte provocava così tanto dolore, perché io stavo soffrendo maledettamente e non sapevo nemmeno il motivo.
Non era da me, non ero io la ragazzina che mi ritrovavo ad essere quando Akito Hayama mi era attorno, non sapevo più cosa pensare di me stessa, se stavo perdendo completamente il senno, se l'avevo già perso... non sapevo piùniente.
Avrei voluto smettere di pensare, ad infastidirmi era il fatto che non riuscivo più a vivere normalmente, perché la sera mi ritrovavo sempre in quelle condizioni: la testa annebbiata, i pensieri in un vortice di incertezza che mi premeva nel petto.
E mi faceva male, mi impediva di respirare a pieni polmoni... e io non volevo più sentirmi in quel modo.
Nella mia testa si materializzarono gli occhi di Akito... cercai la più piccola particella d'ossigeno della mia camera, ma niente... era dannatamente difficile anche solo respirare.
E mi odiavo per quello... mi odiavo in un modo che non riuscivo a contenere, come se potessi cambiare tutto con quel mio odio, come se potesse muovere tutto... in realtà nella mia vita quel sentimento non mi aveva portata da nessuna parte, ma lo custodivo gelosamente dentro di me e non potevo lasciarlo andare... perché non c'era altro a motivarmi.
Ed era l'odio l'unica cosa che non mi permetteva di crollare.
E non sarei mai e poi mai crollata davanti ad Akito, anche se avesse significato strapparmi il cuore dal petto, perché nessuno avrebbe mai più approfittato di me.
Forse a lui non sfiorava nemmeno l'idea, forse era la persona più pulita che avessi mai conosciuto... ma questo non bastava a far crollare anni e anni di diffidenza, non bastava a farmi cedere la mia corazza, non bastava... e avrei voluto disperatamente che bastasse.

Akito.

Dire che avevo passato una nottata difficile sarebbe stato davvero un eufemismo e, mentre mi guardavo allo specchio alla ricerca di una parvenza di serietà, mi resi conto che il caffè doppio che mi ero preparato non era servito assolutamente a nulla.
Era stato quasi impossibile addormentarmi dopo aver passato quella serata con Sana... era stato difficile pensare di doverla rivedere il giorno dopo e trattarla unicamente come la mia segretaria, come se la sera prima non avessi voluto disperatamente baciarla...
Avrei dovuto fingere indifferenza, essere professionale così come ero sempre stato... eppure non riuscivo a non pensare a tutti i dettagli che avevo notato di lei alla festa.
Quel suo modo di sorridere, un po' scostante, un po' sovrappensiero, come se fosse impossibile ridere fino in fondo.
La sua forza, il modo in cui aveva tenuto testa a mio padre... erano tutte cose che confermavano l'opinione che mi ero fatto di lei. Era una donna forte, intraprendente, una che sapeva il fatto suo e non aveva problemi a dimostrarlo.
Mentre elencavo nella mia mente tutte le ragioni per cui quella donna mi stava facendo perdere la testa, il mio telefono prese a squillare e maledissi tutti gli dei che conoscevo prima di rispondere.
«Gomi, dimmi.»
«Abbiamo un fottutissimo problema.»
Il mio più fidato investigatore privato – nonché mio amico d'infanzia – era proprio ciò che mi serviva per peggiorare ulteriormente quell'inizio di giornata, sentire le sue parole rassicuranti sul fatto che avrei dovuto fare un viaggio all'estero per far calmare le acque visto che quel bastardo di Kotanu sembrava impazzito e voleva togliermi di mezzo furono la colazione perfetta per quella mattina.
«Ma pensi che potrei mettere in pausa la mia vita per lui? Tu sei fuori!» urlai, esasperato da quella situazione che mai avrei immaginato mi avrebbe creato tutti quei problemi.
«Akito, ascoltami. Sono piuttosto sicuro che la prossima volta Kotanu non manderà due imbecilli a pestarti. Stavolta manderà qualcuno armato davvero, qualcuno che con un colpo ti può mandare all'altro mondo. Lo capisci o no?
Non dovevi andare in Italia tra qualche settimana per ritirare quel premio? Bene, anticipa il viaggio così cogliamo due piccioni con una fava. E non dirmi che non ti avevo avvertito!»
Sbuffai sonoramente mentre mi facevo il nodo alla cravatta. Avreivoluto che ci fosse Kotanu davanti a me per riempirlo di pugni e farglipassare la voglia di mettere in subbuglio i miei piani.
«Ma cosa hai saputo esattamente?»
«Di dettagliato nulla, so solamente che èintenzionato a chiuderti la bocca una volta per tutte: ti assicuro chei miei informatori sono persone fidate, e lo sai anche tu. Non puoilasciar perdere questa storia dell'inchiesta?»
«Stai scherzando vero? E'il mio lavoro, idiota! Nonposso tacere solo perché lui mi minaccia, non sono uncodardo! Potrei anche accettare di andarmene all'estero perun po', ma non pensare che la storia non verràpubblicata perché, quanto è vero che mi chiamoAkito Hayama, quel farabutto non la passeràliscia!»
Sentivo un fuoco che mi bruciava dentro, partiva dalla testa e arrivavaalle viscere, mi faceva sentire distrutto e allo stesso tempo pieno diadrenalina.
Come poteva pensare che avrei abbandonato la mia inchiesta solo perqualche minaccia?
«Akito, i politici come Kotanu sono pericolosi: se non siè fatto scrupoli con la morte di ventiquattro persone, pensidavvero che si fermerà con te solo perché fai ilmuso duro contro le sue minacce?»
Riflettei per un attimo sulle parole di Gomi: dire che avesse tortosarebbe stata una pazzia, ma io ero un giornalista, tutto il mio essereera proiettato verso la verità e non potevo di certo lasciarcorrere. Non potevo calpestare tutto quello per cui avevo lavorato persfuggire al pericolo: faceva parte del mio lavoro e in quanto taledovevo accettarlo.
«Andrò in Italia, ma non rimarròlì. Passerò lì il tempo necessario perla premiazione, forse qualche giorno in più, poitornerò qui e pubblicherò la storia. Se Kotanuvuole ammazzarmi, lo aspetto a braccia aperte.»
Detto ciò chiusi la chiamata sentendomi quasi in colpa peril modo in cui avevo risposto a Gomi, ma il solo pensiero di dovertacere per colpa di un'unica persona mi mandava inescandescenze; davvero non mi importava delle conseguenze, preferivo digran lunga rischiare la pelle piuttosto che nascondermi.
Era Kotanu quello che avrebbe dovuto mettere la testa sotto la sabbia,di certo non io.
Sorgeva un unico problema: l'organizzazione della partenza.Avrei dovuto far combaciare gli appuntamenti più importantiper quell'ultima settimana, avvisare il pilota del mio jetma, cosa più importante, dire a Sana che avrebbe passato bendue settimane in Italia.
Per contratto non poteva rifiutare, eppure sentivo dentro di me chesarebbe stato difficile convincerla, soprattutto con cosìpoco preavviso.
Mi sentivo tra l'incudine e il martello, incerto secostringerla a venire con me o lasciarla libera di scegliere. Nessunadelle due opzioni mi garantiva la sua presenza, per cui pensai chefosse giusto dirglielo di persona: avrei capito dalla sua reazione cosale passava per la testa, ammesso che fosse semplice insinuarsi nei suoipensieri.
Il più delle volte era impossibile, pensai. Aveva la stranacapacità di respingermi, di lasciarmi fuori dal suo recintopersonale, come se non volesse lasciar entrare nessuno a disturbarla.
Anche la sera prima mi aveva dato quell'impressione, persinoquando mi ero avvicinato per baciarla e l'avevo trovata quasiconsenziente. Anche se l'avessi baciata, sarebbe stato unmomento puramente fisico. Per quanto avessimo potuto provare unaqualche emozione, Sana non mi avrebbe mai permesso di andare oltre adove lei voleva che arrivassi.
Era come se avesse avuto uno scudo attorno, una sorta di perimetrocontrollato che nessuno avrebbe mai potuto oltrepassare. Al dilà di quello scudo c'era sicuramente un panoramamozzafiato, ma lei lo teneva segreto e lo proteggeva – forseun po' troppo strenuamente – dalla cattiveria cheavrebbe potuto attaccarlo.
Forse su quell'aspetto eravamo molto simili. Per molto tempoio avevo tenuto dentro di me ciò che veramente mi rendevafelice, mi ero nascosto dietro false ambizioni e mai una volta eroriuscito ad aprire quella porta verso l'esterno.
Solo quando avevo capito che sarei stato infelice per tutta la mia vitaavevo preso in mano le chiavi e avevo deciso di lasciare uno spiraglio.Tsuyoshi era entrato dal primo istante, con quel suo fare fastidioso,ma con l'unica capacità di comprendermi.
E negli anni avevo capito che, nonostante i miei grossi casinifamiliari, non potevo chiudermi al mondo. Dovevo esserci, alzare lavoce quando era necessario, dovevo urlare contro quello che non miandava bene.
Dovevo essere me stesso.
Anche Sana doveva aprire gli occhi, guardare il sole ed essereconsapevole di ciò che era.
Parcheggiai l'auto sotto casa sua e sospirai.
Mi stavo presentando a casa della mia segretaria, alle otto delmattino, per dirle che dopo una settimana saremmo partiti insieme.
Presi coraggio e suonai il campanello.
Sentii la corsa di Sana verso la porta, l'apertura del ferroche chiudeva la serratura e poi sentii la sua voce. «Cosa haidimenticato, Ay...»
Il fiato le morì in gola non appena mi vide, e io rischiaidi sputare un polmone quando notai in che condizioni era.
Mi fermai prima che la mascella mi arrivasse per terra.
Un asciugamano bianco l'avvolgeva lasciandole scoperte lespalle, le gambe... alcune ciocche di capelli erano sfuggite alla codadisordinata che aveva fatto e le ricadevano leggere sul collo, le puntebagnate come le piante piene di rugiada, le gocce scivolavano maliziosesul suo petto come a voler arrivare esattamente dove avrei volutodisperatamente essere anch'io.
Il respiro mi si incastrò in gola, avrei voluto allungareuna mano e sfiorarla, constatare con il tatto se fosse un miraggio o larealtà, o forse la mia mente che mi giocava brutti scherzi,fu un istante fulmineo - e dentro di me la consapevolezza che mai misarebbe stato concesso di toccare il sole così da vicino.
«Che ci fai qui?» chiese tenendo con una mano illembo dell'asciugamano e con l'altra, saldamente,la porta.
«Dovrei parlarti.»
«E sei venuto fino a casa mia per parlarmi? Non poteviaspettare le nove in ufficio?»
Scossi la testa e non cambiai espressione, il mio tentativo di farlecapire che si trattava di una cosa seria. «Evidentementeno.» Mi limitai a rispondere.
Pensai che mi avrebbe fatto entrare non appena avesse capito che nonstavo affatto scherzando, invece rimase lì, davanti a me, aguardarmi come se gli stessi chiedendo di uccidere qualcuno.
«Mi fai entrare o no?»
Mi fissò trafelata, tenendo con una mano il lembodell'asciugamano che pregavo le scivolasse - al solo pensiero mi venneduro all'istante - ma non disse nulla, si limitò a sbattermila porta in faccia.
Ma che diavolo...
«Sana, maledizione, vuoi farmi entrare?»
Battei il pugno sulla porta più volte, quasi scoppiai aridere per quel suo comportamento infantile, quando sentii nuovamente isuoi passi veloci per il corridoio e tornò ad aprirmi,completamente vestita ma a piedi nudi e con i capelli ancora bagnati.
La camicia bianca di seta quasi trasparente che indossava le metteva inrisalto tutto quello che avrei voluto ignorare: tentavo di nonguardarla, di non lasciarmi distrarre, ma lei lo faceva di proposito.Mi costringeva a fissarla come un pesce lesso, non mi lasciava scampo -e più la guardavo, più mi sentivo inadatto anchesolo a contemplarla.
«Vorrei ricordarti che sono il tuo capo: non puoi lasciarmiad aspettare fuori dalla porta.» dissi superandola efermandomi nell'ingresso.
«Siediti Hayama, prima che me ne penta e ti butti fuori acalci.» disse lei afferrando l'asciugamano che aveva lasciatosul divano e prendendo a frizionarsi i capelli.
«Questo è il risultato quando lasci troppaconfidenza ai tuoi dipendenti...»
Sedendomi sul suo divano, mi soffermai per un attimo a guardare casasua, una casa totalmente al di fuori delle mie aspettative.Dall'esterno il palazzo sembrava malandato - e lo era, sicuramente - macasa di Sana era davvero carina. Certo, era molto piccola, salotto ecucina erano un unico ambiente e potevo intravedere in fondo alcorridoio altre due porte che dovevano essere il bagno e la sua camerada letto.
Il suo letto...
Cosa avrei dato per sapere com'erano le sue lenzuola, se profumavano dicannella proprio come lei...
Mi rivolse uno sguardo sornione, tirandomi l'asciugamano in faccia,distogliendomi dai miei pensieri. Quando si avvicinò perriprenderlo lo tenni stretto, costringendola a mettere piùforza e, quando mi resi conto che stava tirando abbastanza, lasciai lapresa e lei cadde sulla piccola poltrona che aveva nel salotto.
«Hai finito?» mi sorrise, spostandosi il ciuffobagnato dal viso.
«Forse.»
«Mi vuoi dire cosa ci fai a casa mia alle otto delmattino?»
Annuii in silenzio e presi la cartelletta che avevo preparato perspiegarle le successive due settimane che avremmo passato in Italia.
Se avesse accettato...
Gliela porsi e lei la prese con un'espressione interrogativa,cominciando poi a leggere. «Ma questi sono biglietti aerei,Akito.»
«Si, Sana, sono biglietti aerei.» confermai.
«Biglietti aerei... per l'Italia.»
«Si, Roma per la precisione.»
«E perché dovremmo andare a Roma?»
«Perché dovrei ritirare un premio per ilgiornalismo d'inchiesta, in più vorrei ampliare le nostresedi: in Italia ci sono migliaia di cittadini giapponesi a cui pensofarebbe piacere leggerci. Ovviamente, ho bisogno della miasegretaria.»
Per una frazione di secondo i miei occhi incrociarono le sue iridiscure, incerte sul da farsi. Sentivo a pelle che avrebbe volutorifiutare ma per contratto era obbligata all'assenso e io mi sentiiquasi malvagio a costringerla.
«Aspetta un attimo, hai ricevuto il premio Giustolisi? Equando?»
Fui stupito di sentire che conoscesse quel premio, la maggior partedelle persone non ne era a conoscenza e rimaneva sempre un po' sorpresao confusa nel sentirlo.
Ma Sana non era come lamaggior parte delle persone...
«Quando è prevista la partenza?»
«Tra tre giorni...» biascicai.
«E il ritorno?»
Rimasi in silenzio per un attimo, sicuro che avrebbe dato inescandescenze. «Tra due settimane...»
«Due settimane?!» urlò.
Ecco, aveva sicuramente reagito bene...
«Sapevi di dover dare la disponibilità per deiviaggi di lavoro.»
«Viaggi di lavoro, non soggiorni di settimane!»
Tornò a leggere attentamente il programma di viaggio, e perla prima volta da quando la conoscevo i sentimenti che stava provandogli apparvero chiari sul viso: stupore mentre pensava di dover passaredue settimane con me, paura probabilmente per la stessa motivazione,forse anche un po' di attrazione... e il conseguente terrore di quellasensazione.
«E' stato il mio investigatore privato a consigliarmi dipartire: Kotanu ha deciso di mettere una cavolo di taglia sulla miatesta. Avrei dovuto farlo comunque questo viaggio, l'ho solamenteanticipato per evitare una nuova capatina in ospedale.»
Sana lasciò andare immediatamente i documenti e mifissò dritta negli occhi. «Cos'èsuccesso? Ti hanno minacciato?»
Scossi la testa. «No, ma è molto meglio per mecambiare aria per un po'...»
«E non pubblicherai più la storiadell'incendio?»
«Quando tornerò, cipenserò...»
Sana si passò una mano tra i capelli ancora bagnati, nondisse nulla, si limitò semplicemente a guardarmi e io mividi riflesso nello specchio delle sue pupille.
«Devi portarmi a Fontana di Trevi, o giuro che nonpartirò mai più con te.»
Quasi istintivamente mi alzai dal divano e mi fiondai verso di lei perabbracciarla ma subito notai la sua reticenza per cui mi bloccai ametà strada.
«Adesso possiamo andare in ufficio?» chiese poi,evitando prontamente di commentare il mio comportamento.
«Preparati, ti aspetto qui.»
Sana si allontanò e nel tempo che mi toccòaspettarla osservai ancora casa sua. Sui tetti c'era la muffa, un po'nascosta dalla vernice colorata, i mobili era evidente fosseroabbastanza datati, il divano aveva qualche molla rotta...perché Sana viveva in un posto del genere? Perchénon era mai riuscita a trovarsi qualcosa di meglio?
Al giornale la pagavo abbastanza da potersi permettere una casadiversa, più curata, eppure si ostinava a vivere in quelluogo. Non riuscivo a spiegarmelo...
«Hai mai pensato di cambiare casa?» urlai perfarglielo sentire anche mentre aveva il phon acceso.
Vidi la sua testa spuntare dalla porta del bagno. «Qualchevolta, ma non sono mai riuscita a trovare niente che mi piacesse. Amocasa mia.»
«Mhm...»
Amava casa sua, ma doveva assolutamente darle una sistemata o lesarebbe crollata addosso con il passare del tempo.
Continuai a guardarmi intorno finchè Sana nonuscì dal bagno. «Andiamo?» chiesi,aprendo la porta.
«Andiamo.» rispose lei, prendendo le chiavi echiudendo la serratura.
Erano gli ultimi due giorni che passavamo in ufficio... e poi la miavita sarebbe cambiata per sempre.
Non per Sana - forse losperavo, lo avrei voluto con tutto me stesso - maprincipalmente per la mia carriera, messa a rischio da un farabutto chevoleva togliermi ciò che avevo di più caro: lamia verità.
Salii in macchina dopo aver fatto accomodare Sana.
Notando che non aveva messo la cintura mi sporsi verso di lei el'afferrai, facendogliela scorrere addosso. Sapevo che quel mio gestol'avrebbe messa a disagio ma non ero riuscito a resistere.
Arrossì all'istante, toccandosi nervosamente i capelli, epoi mi sorrise come per ringraziarmi, ma sapevo che avrebbe volutouccidermi.
«Non sia mai che tu non sia al sicuro con me.»dissi premendo sull'acceleratore e preparandomi alle successive duesettimane che, lo sapevo benissimo, sarebbero state le piùdifficili della mia vita.


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