Cristallo

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"Amarti qui, ed ora... è l'unica cosa che posso fare..."
Giordana Angi.

Akito.

Non sapevo nemmeno perché quella donna mi mandasse così tanto fuori di testa, o meglio lo intuivo ma non ero in grado di mettere quelle ragioni in ordine, e non sapevo come fosse possibile che, qualsiasi cosa facessi o pensassi, lei trovasse sempre il modo di mettere nei casini i miei progetti.

Ormai ci avevo fatto l'abitudine, se così si può dire, a farmi sconvolgere i piani da lei, ma comunque era sempre una continua sorpresa e ad infastidirmi era proprio quello: la consapevolezza che, in ogni caso, non sarei riuscito a contrastare il suo volere.

Dalla mia posizione professionale ero abbastanza bravo a dare ordini, a scegliere, a mettere al primo posto le mie decisioni, ma con lei tutto era messo in discussione. E allora mi ritrovai a fissarla, inerte, ammutolito da quanto diamine potesse essere bella anche se la odiavo per come mi aveva trattato.

La guardai, la guardai così a lungo che mi si consumarono le pupille, deglutendo perché stavo quasi per strozzarmi con la mia stessa saliva, e sul suo viso si formò una minuscola smorfia di soddisfazione. Quanto godeva nel vedermi in difficoltà, anche se odiava quando mi avvicinavo a lei; e con Sana ormai era tutto così, faceva tutto parte di un intricato gioco la cui unica pedina ero io, e lei tirava i dadi a suo piacimento e poi ritirava la mano per non farsi vedere. Era distruttivo, stressante ai limiti del sopportabile, ma ormai ero dentro Jumanji, non potevo uscirne senza finire il gioco.

Il bianco del suo talleuir metteva in risalto le sfumature infuocate dei suoi capelli, e quella scollatura... Dio, il corpetto faceva intravedere il suo seno e il solo pensare a quello mi fece andare lo stomaco sottosopra, mostrandomi per la prima volta come ci si sente ad essere vulnerabile davanti ad una donna, e la cosa mi faceva sentire profondamente a disagio perché io avevo abbassato tutte — o quasi tutte — le mie difese, mentre lei non faceva altro che alzare nuove barriere, muri più alti e resistenti che sarebbe stato troppo difficile valicare senza un suo aiuto.

«Possiamo andare?» dissi cercando di mantenere lo stesso distacco che lei aveva riservato a me. E forse ero anche un po' egoista, forse non mi stavo curando dei suoi sentimenti ma, in quel momento, mi bastavano i miei.

Mi sentivo così frustrato dal suo atteggiamento, morso dalle sue insicurezze, graffiato nella parte più profonda di me perché, esattamente come mi era successo mille volte, lei mi aveva chiuso la porta in faccia. E io gliel'avevo lasciato fare, così come l'avevo lasciato fare a mio padre, così come l'avevo lasciato fare a mia sorella e loro non se n'erano nemmeno accorti.

Per loro era stato facile, era bastato dirmi che dovevo andare via e non gli era importato che avessi solamente diciannove anni, per loro l'unica cosa importante era che io finissi giurisprudenza, che mi chiudessi nello studio di mio padre a vivere una vita che mi avrebbe mandato al manicomio.

Ma a loro non importava. Come non importava a Sana, perché l'unica cosa che sapeva fare — e si impegnava moltissimo nel riuscirci — era mandarmi via. E perché io avrei dovuto piegarmi, farmi rompere tutte quante le ossa solo per ricevere un po' di sollievo, nemmeno poi così soddisfacente.

Perché, per quanto lei fosse bella, intelligente, una di quelle persone che ti entra sotto la pelle, non potevo permetterle di toccarmi.

Non in quel modo almeno. Esattamente come lei, che scappava dalle mie mani che mai, mai, avrebbero cercato di farle del male, io rifuggivo tutto ciò che avrebbe potuto farmi sentire ciò che mio padre mi aveva messo sulle spalle.

E lei stava facendo esattamente quello. Con quei suoi occhi giudicanti, come se sapesse tutto, come se potesse leggermi, quando in realtà sapeva solo ciò che io le permettevo di vedere. Ed era poco, molto poco.

Come si amano certe cose oscure.Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora