Lacrime

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Non sapevo bene che cosa dirgli. Mi sentivo molto maldestro.
Non sapevo bene come toccarlo, come raggiungerlo...
Il paese delle lacrime è così misterioso.
(Antoine de Saint-Exupéry)
Akito.

Tornare in ufficio fu la cosa migliore che mi capitò in settimane – tralasciando la presenza perenne di Sana in casa mia – e riuscire ad indossare da solo una camicia un traguardo che mi fece sentire felice come un bambino.
Mi ero svegliato prestissimo quella mattina, completamente preso dall'adrenalina, e non ero riuscito a non arrivare presto in sede.
Guardai la sua scrivania e la trovai vuota ovviamente, essendo ancora le sette del mattino, e mi affrettai a riprendere il mio posto sulla poltrona di pelle che amavo tanto.
Una leggera fitta alla spalla mi fece rendere conto che forse non ero ancora pronto per tornare a lavoro – il medico non mi aveva detto altro – ma rimanere in casa per due settimane era sufficiente per me che non avevo mai preso nemmeno un giorno di riposo, per cui avevo contraddetto tutti quelli che mi ripetevano di non mettere piede in ufficio – compreso Tsu che ormai si stava godendo la sua nuova posizione da direttore – e mi ero imposto di rimettermi in carreggiata.
Non me ne importava proprio niente del dolore alla spalla, un paio di antidolorifici e sarebbe passato, mentre il mio giornale non poteva risentire dei miei problemi.
Aprii il computer e controllai le mail in entrata, ne scrissi una al mio avvocato per sapere cosa aveva scoperto alla polizia su quei due che ci avevano aggrediti, e poi passai il tempo restante a mettere in ordine i documenti arretrati che Sana non mi aveva portato a casa.
Senza che io me ne fossi accorto, non appena alzai lo sguardo, Sana era seduta al suo posto fuori dal mio ufficio. Amavo il fatto di poterla guardare quando volevo grazie alle grandi vetrate con cui era costruito tutto l'ufficio, e notai i capelli legati in una crocchia disordinata, segno che quella mattina non aveva voglia di farsi bella anche se lo era senza alcuno sforzo.
Spostai i miei pensieri quando vidi Tsuyoshi camminare spedito verso il mio ufficio con aria abbastanza inquieta.
«Si può sapere che diavolo ci fai qui?» disse spalancando la porta e attirando l'attenzione di quasi tutta la redazione, compresa Sana.
«Sono tornato a lavoro, amico. Che pensavi, che ti avrei lasciato il posto così, senza combattere?» scherzai, alzandomi prontamente dalla sedia e andandogli incontro.«Non cominciare con le solite cose, sto bene Tsu.»
Lui inarcò un sopracciglio e poi mi diede una botta sulla spalla. Digrignai i denti per il dolore e per poco non mi fiondai su di lui per riempirgli la faccia di pugni. «Ma che cazzo fai?» urlai piegandomi leggermente in avanti e stringendo il braccio.
«Questo è quanto tu stai bene!». Fece per uscire dal mio ufficio, poi si voltò nuovamente verso di me. «Spero che tu ti renda conto di quanto tu stia mettendo in pericolo la tua salute facendo così.»
Gli andai dietro quando mi accorsi che si stava dirigendo nuovamente verso la porta. «Non preoccuparti Tsu.» dissi capendo perché fosse così arrabbiato con me. Non era veramente in ansia per la mia spalla – o almeno, non completamente – ma lo era perché temeva che qualcuno mi pestasse di nuovo.
Lui annuì, stavolta lasciandomi da solo. Sorrisi per la sua reazione: nessuno si preoccupava per me come lo faceva Tsuyoshi – nessuno – nemmeno la mia famiglia. Lui era stato quello che alle superiori mi aveva aiutato a non farmi espellere dalla scuola per tutte le risse causate, quello che mi accompagnava sempre in bagno per pulirmi la faccia dal sangue, era quel fratello che non avevo avuto la possibilità di avere e che, in un certo senso, era anche meglio di un fratello vero e proprio.
Tornai al mio lavoro provando a trovare un modo per calmarlo e per assicurargli che non mi sarebbe successo nulla, ma era difficile quando non sapevo nemmeno chi fossero quei due.
Ero certo che li avesse mandati il deputato Kotanu, un modo per impedirmi di aprire bocca sul suo tentativo di corruzione, per evitare che la storia dell'incendio saltasse fuori portandolo al fondo insieme a tutti gli altri indagati, ma non ne avevo le prove né tanto meno potevo accusare un personaggio così influente sulla base di parole dette da due malviventi.
Nessun tribunale mi avrebbe creduto, anzi, sarei stato perseguito per diffamazione. L'unica cosa che potevo fare era far uscire ugualmente quella storia, mettere alla luce tutto ciò che sapevo su quell'incendio e lasciare che la giustizia facesse il resto; ma sapevo benissimo che era alquanto complicato, perché essere un politico ti apriva mille porte in più rispetto a tutte le porte chiuse che io, da direttore di giornale, avevo incontrato.
Cominciai a scrivere una bozza dell'articolo che avrei personalmente pubblicato in prima pagina nel numero della settimana successiva: cancellai ogni singola parola migliaia di volte prima di arrivare ad un quarto del pezzo in modo quanto meno decente, poi decisi che era ora di chiudere e di dedicarmi ad altro perché non sarei mai riuscito a finirlo in mattinata e nel pomeriggio avevo da visionare le copertine del numero corrente e la riunione per la nuova rubrica da inserire.
Guardai fuori dalla porta e Sana sembrava molto impegnata a risponderealle mille chiamate che arrivavano al minuto, mi accorsi che quandoalzava la cornetta sbuffava quasi impercettibilmente e poi parlando lesi formava una piccola ruga al centro della fronte, come se fosse infastidita da qualcosa.
Si alzò improvvisamente venendo verso la mia porta e io feci finta di essere molto preso dal mio lavoro – dire che mi stavo trasformando in una femminuccia era un eufemismo – e aspettai che entrasse nel mio ufficio e si piazzasse davanti a me prima di alzare lo sguardo su di lei.
«Si?» dissi distante. «Hai bisogno di qualcosa?»
«Dovresti firmarmi queste carte, sono i moduli per la nuova rubrica e l'assunzione della nuova stagista, Fuka Matsui.»
«Da quando assumiamo stagiste?»
Il suo viso si corrucciò, specchio dei suoi pensieri, e io la guardai con ancora più insistenza: nessuno mi aveva informato di dover assumere una stagista.
«E' un progetto che ci porterà parecchi introiti, il signor Sasaki lo ha approvato.»
«Introiti? Una stagista?»
«Si, è una studentessa universitaria: l'università ci pagherà ogni spesa con gli interessi e noi avremo una lavoratrice in più che potremo mandare via quando vorremo.» disse sicura. «Che tu... tu potrai mandare via quando vorrai.»
Annuii, sorridendo. Mi faceva piacere che sentisse il giornale come qualcosa di suo, per cui non le risposi.
«Allora?»
«Allora che?» chiesi, tornando a guardarla.
«Li firmi questi moduli o devo falsificare io la tua calligrafia?»
Afferrai le carte che mi stava porgendo e, dopo averle lette superficialmente, le firmai una per una.
«Ne saresti capace, comunque?»
«Cosa, falsificare la firma?»
Annuii, aspettando la sua risposta.
«Certo che ne sarei capace.»
Tutto ciò che vidi successivamente fu la sua schiena, fieraed elegante, che mi lasciava interdetto a quella risposta.
Sapeva falsificare le firme, non aveva una famiglia, viveva da sola,cos'altro nascondeva quella ragazza?
Che vita assurda aveva condotto fino a quel momento?
Mi persi ad immaginare i possibili scenari della sua infanzia, magari i suoi genitori erano morti quando lei era molto piccola o forse non aveva semplicemente buoni rapporti proprio come me ma la seconda opzione mi sembrava la meno plausibile vista la discussione avuta quel pomeriggio a casa mia.
Lasciai andare le congetture e sperai che prima o poi me ne avrebbe parlato, anche se sapevo che non sarebbe stato facile a causa del suo carattere sfuggente.
Paradossalmente io, che di solito ero la persona più riservata e introversa dell'universo ero riuscito a parlare con lei della mia famiglia con assoluta tranquillità e non sapevo nemmeno spiegare perché.
Forse era stato il suo essere convinta di avere ragione, forse volevo provarle che la famiglia non è esattamente sempre quel nucleo felice che ti accompagna in ogni traguardo raggiunto.
Forse perché avevo sentito in lei un bisogno inespresso di essere vicina a qualcuno, forse semplicemente ero io che volevo avvicinarmi a lei.
Sbuffai sonoramente portandomi le mani tra i capelli, sfinito dai miei pensieri, e feci passare le successive ore tra le riprese del lavoro arretrato e gli sguardi lanciati fuori dalla porta.
Quella ragazza mi avrebbe fatto impazzire, ne ero sicuro.


Sana.

Mentre archiviavo le ultime carte per l'assunzione di quella nuova stagista, una voce familiare mi fischiò nelle orecchie e mi costrinse ad alzare gli occhi dal computer.
Una donna sulla trentina si avvicinò alla porta di Akito e, con un gesto fulmineo, la attraversò piombando nel suo ufficio senza nemmeno darmi il tempo di fermarla.
Mi alzai immediatamente e la raggiunsi all'interno.«Signora, la pregherei di uscire, il signor Hayama riceve solo su appuntamento.»
«Oh, sta' zitta ragazzina. Il signor Hayama, qui...» scimmiottò Akito che non accennava ad alzarsi dalla sua poltrona. «Mi riceve quando lo decido io.»
«Signora, glielo ripeto, non può stare qui.»
«Akito, dì a questa ragazzina di togliersi dai piedi.»
Akito si piazzò davanti a lei nel giro di due secondi e la sovrastò con la sua figura autoritaria. «Natsumi, la ragazzina qui...» disse riprendendo le sue stesse parole. «Si toglie dai piedi quando lo decido io.»
Akito si voltò verso di me e mi fece cenno di avvicinarmi.«Lei è Sana Kurata, la mia...»
«La tua ragazza, spero, perché se è la tua segretaria è davvero un'incompetente.»
«Senta, signora!» alzai di un tono la voce prima che Akito mi mettesse una mano sulla spalla e mi facesse bloccare il fiato in gola.
«Lascia stare, Sana. Lei è quella vipera di mia sorella.»
«Adesso capisco perché odi la tua famiglia.» mi feci scappare in modo che la signora, lì, mi sentisse bene e girai i tacchi per uscire dall'ufficio e lasciarli da soli, ma Akito mi fermò a metà strada pregandomi con gli occhi di non andarmene.
«Lei è la mia segretaria, e non è un'incompetente Natsumi, sei tu ad essere una pessima ospite.»
Per poco non scoppiai a ridere quando vidi la faccia di Natsumi diventare di un colore che andava dal verdognolo al bianco pallido sentendo le parole del fratello. Di certo non era abituata a sentirsi trattare a pesci in faccia.
«Molto piacere.» dissi porgendole la mano, provando ad essere educata nonostante lei non lo fosse stata con me. Lei me la strinse come se stesse toccando qualcuno con la lebbra ma evitai commenti su ciò per evitare di farla tornare a casa in condizioni non gradevoli alla vista.
La fissai per un secondo mentre si voltava a guardare nuovamente Akito. Indossava un talleuir rosa antico, un colore che io non avrei messo nemmeno sotto tortura, e tra i capelli aveva una spilla che forse sarebbe stata adatta ad un matrimonio.
«Posso andare?»
Akito scosse la testa, facendomi segno di andare dietro di lui. Obbedii senza fiatare, ma la situazione non era di certo delle migliori. Natsumi mi guardò come se avesse appena visto un alieno, poi si sedette stizzita sulla sedia davanti alla scrivania.
«Che c'è, hai bisogno della babysitter?» disse alzando il mento verso di me.
«Forse ti sei confusa parlando di te, dov'è Ikumu, con la segretaria?»
Natsumi non raccolse la provocazione di Akito, e io mi chiesi quanto doveva essere triste la vita di quella donna. Da ciò cheaveva detto Hayama suo marito non le era esattamente fedele, suo fratello la disprezzava letteralmente, era fredda e sembrava incapace di qualsiasi tipo di gentilezza.
Come faceva ad andare a letto serena?
«Allora, verrai al compleanno di papà?» chiese lei, poggiando la borsa sulla sedia accanto.
«Ciao Natsumi, io sto bene, tu come stai? Come è stato essere pestato e aver passato due settimane chiuso in casa perché avevi la spalla lussata? Mah, è statofaticoso, ma eccomi qui, di nuovo a lavoro.»
Akito reclinò leggermente la sedia e riuscii a guardarlo per un attimo, mi fece un sorriso sornione e poi tornò a guardare la sorella.
«Stai bene, mi sembra. Quindi, verrai o no?»
Akito si passò una mano sul mento, visibilmente infastidito.
«Ho bisogno di una conferma, e di sapere se porterai qualcuno, anche se ne dubito.»
Avrei voluto tirarle due schiaffi con tutto il mio cuore, ma negli anni che avevo passato in comunità mi avevano insegnato che la violenza era sempre la via dei vigliacchi. Certo era che poi, negli anni, chiunque conoscessi disattendesse gli insegnamenti che mi erano stati dati.
Le sue labbra si chiusero in attesa di una risposta, minuscole crepe al centro del suo viso segnato da tutta l'evidente rabbia che la stava attraversando.
«Porterò me stesso, non ti basta?»
Lei scosse la testa impercettibilmente, poi diede uno sguardo veloce a me, squadrandomi da testa a piedi, e infine tornò a guardare Akito.
«Non potresti portare lei?»
Che? Cosa?
Si rivolse a me come se volesse vomitare sulla scrivania di suo fratello al solo pensiero di proporre quella cosa e più la guardavo più mi rendevo conto che era piena di un astio immotivato nei confronti della vita.
Cosa le mancava, per la miseria?
Se suo marito la tradiva poteva benissimo lasciarlo e trovare un modo diverso di godersi la vita, ma in fin dei conti quali erano i suoi reali problemi?
«Lei? La mia segretaria?»
Il fatto che tutto si riducesse a quello mi fece sentire un po' sminuita, ma fondamentalmente non potevo imputargli nulla, ero davvero solo la sua segretaria e volevo che le cose rimanessero tali.
«No, io... Io non potrei, assolutamente.»
«E perché no? Hai di meglio da fare che salvare il tuo capo dall'imbarazzo di non avere uno straccio di fidanzata a quasi trent'anni?»
Non resistetti più. «Ma chi si crede di essere per venire qui a sputare sentenze?» urlai, avvicinandomi leggermente verso di lei, e sentii Akito sfiorarmi impercettibilmente il braccio, come per bloccarmi.
«Io sono la sorella di Akito, lei invece chi è? Solo l'ennesima segretaria che si licenzierà perché il direttore le ha spezzato il cuore.» disse in tono canzonatorio.
L'ennesima segretaria?
Mi voltai verso Akito che mi guardò livido in volto, sul punto di alzarsi e prendere a schiaffi la sorella. Con mio grande stupore, però, non lo fece.
«Natsumi, ci vediamo la settimana prossima, conserva il tuo veleno per chi se lo merita. E, per tua informazione, Sana è un'amica. Se mi vorrà fare il piacere di accompagnarmi, ovviamente, la porterò con me.»
I suoi occhi mi inchiodarono sul posto, io non riuscii a dire nulla, né si né no.
La perfida strega dell'ovest girò i tacchi e, non appena arrivò davanti alla porta, si voltò nuovamente verso Akito che, però, non staccò per un secondo gli occhi da me.
«Fammi sapere in tempo se la signorina ci onorerà della sua presenza.»
L'ultima cosa che sentii fu il rumore dello sbattere della porta perché, un attimo dopo, attorno a me fu solo silenzio. Non riuscivo a sentire nemmeno il mio cuore battere dal momento in cui Akito aveva preso a fissarmi in quel modo.
«Allora, verrai?»
Abbassai lo sguardo incerta. Se fossi stata davvero l'ennesima segretaria?
In realtà ne dubitavo, principalmente perché non nutrivo per lui quel tipo di sentimento per cui il mio cuore, fino a quel momento, era sano e salvo.
Ma... quando alzai nuovamente gli occhi e li incastrai con i suoi, mi sembrò che quel pensiero si facesse così lontano da non riuscire nemmeno più a ricordare come fosse fatto.
C'erano state delle volte, durante le due settimane passate praticamente ogni giorno in casa sua, in cui si era allontanato così tante volte che pensavo non sarei mai più stata in grado di rivederlo. Eppure, costantemente, lo avevo riacchiappato, riportandolo dove doveva stare, e quel pensiero – quel minuscolo, insignificante pensiero che mi teneva alla larga da Akito Hayama – era tornato al suo posto.
E adesso? Adesso che mi stava invitando al compleanno di suo padre, un evento intimo, importante, mi sentii di nuovo inadeguata.
«Credo...» mugugnai. «Credo che dovrai trovarti un'altra accompagnatrice.»
Akito si toccò l'accenno di barba che aveva sul viso, producendo quel rumore di sfregamento che mi faceva venire sempre la pelle d'oca, poi poggiò la sua mano sulla mia, improvvisamente.
La ritrassi quasi automaticamente, senza nemmeno pensarci, senza considerare che il suo tocco non mi infastidiva, che avrei potuto addirittura abituarmici. Lo feci perché per me, ormai, era come un'abitudine, come una reazione istintiva del mio corpo che cercava disperatamente di proteggersi.
«Scusami... avevo dimenticato ti desse fastidio.» sussurrò lui mettendosi le mani in tasca.
«No, non è questo... è che... niente.» troncai prima di rivelare troppo.«Non posso venire alla festa con te, non sarebbe appropriato.»
«Siamo amici, no?»
Era una domanda a trabocchetto? Comunque annuii.
«Bene, gli amici vanno alle feste, escono a bere una birra, fanno cose normali, insomma.»
«Ma si tratta del compleanno di tuo padre: penseranno tutti che sono la tua ragazza.»
Akito mi fulminò con lo sguardo. «Ti dispiacerebbe?» disse poi sottovoce e nel mio stomaco dovevastar succedendo una guerra perché bastarono quelle due soleparole a buttarlo nel caos più totale.
«Certo, visto che non è assolutamente vero!»
«Che t'importa! Dai, fammi questo favore. Salvami dalle grinfie della strega cattiva!» scherzò poi, facendo una buffa imitazione della sorella che, dovevo ammetterlo, faceva piuttosto ridere.
Riflettei per un secondo. In fondo, cosa mai sarebbe potuto succedere?
Mi avrebbe presentato qualcuno, avrei dovuto stringere qualche mano – e già questo mi rendeva nervosa – ma alla fine della serata forse avrei anche potuto dire di essermi divertita.
E poi, diavolo, lui mi guardava con quegli occhi da cane bastonato – uno sguardo che mai gli avevo visto addosso prima di quel momento – per cui non potei far altro che accettare.
«Ad una condizione però.» precisai. Lui annuì, invitandomi a continuare. «Niente balli.»
«Niente balli.» ripetè, alzando le mani in segno di resa.
Quindi, in breve, avevo accettato di andare al compleanno di suo padre, ergo avrei avuto bisogno di un vestito nuovo perché nonavevo niente che potesse essere lontanamente adatto a quell'occasione.
Fui tentata di dirglielo, poi pensai che c'era solo una persona che poteva aiutarmi in quel momento.
La stessa persona che avevo lasciato in asso e a cui avrei dovuto assolutamente chiedere scusa.

***

Suonai alla porta di Aya due volte, ma non ottenni risposta. Considerai la possibilità che non fosse in casa, ma era mercoledì e, da quello che sapevo, lei non usciva mai durante la settimana.
Suonai il campanello una terza volta e, finalmente, dopo cinque minuti di tentativi Aya mi aprì la porta in pigiama.
«Sana, che...»
«Mi dispiace!» dissi prima ancora che lei potesse parlare. «Mi dispiace tantissimo di averti lasciata in asso quel lunedì, non volevo, davvero! Ma il mio capo è stato pestato a sangue, mi hanno quasi sfregiata, ho passato due settimane praticamente rinchiusa in casa sua perché non poteva venire in ufficio, quindi poi ho dimenticato completamente di avvisarti e, non avendo il tuo numero, non ho potuto nemmeno telefonarti. So che ti sembra una scusa ma ti assicuro che non è così... sono stati giorni infernali E, davvero non so come...»
«Basta, Sana! Dio mio, mi avevi già convinta quando hai detto mi dispiace!» mi bloccò lei, riservandomi un enorme sorriso.
La guardai a bocca aperta, mai nessuno mi aveva trattato con così tanta gentilezza, mai nessuno mi aveva dato il beneficio del dubbio. Lei mi guardava con quegli occhi limpidi, pieni di sincerità e io, per la prima volta dopo tanto tempo, non mi sentivo a disagio.
«Dici sul serio?»
«Sana, smettila di fare la stupida ed entra! Ho preparato una torta di mele da leccarsi i baffi!»
Nel giro di due minuti mi ritrovai sul suo divano, senza scarpe, con un pezzo di torta di mele tra le mani e un po' di tè in una tazza.
«Allora, come mai qui? Il tuo capo ti ha chiesto diprocurargli una vittima sacrificale?»
«Sono io la vittima sacrificale.» dissi mordendo latorta. «Mi ha invitato al compleanno di suo padre.»
«E tu hai accettato, ovviamente.»
Annuii. «C'è un piccolo, insignificante problema.»
«E' gay.»
Per poco la torta non mi andò di traverso.«Assolutamente no. O meglio, non credo...» dissi ripensando al comportamento avuto in ospedale.
Era impossibile che fosse gay.
«E allora qual è il problema?»
«Il problema è che non ho niente da mettermi.»
Aya mi guardò per un attimo, poi si alzò, andò in cucina e tornò con le chiavi della sua auto tra le mani.
«Andiamo a spendere i nostri stipendi!»

***

Passammo l'intero pomeriggio al centro commerciale, tra la scelta dell'abito – che, per la cronaca, era introvabile – e degli accessori. Aya aveva svaligiato praticamente tutti i negozi, mentre io non ero riuscita a trovare uno straccio di niente.
«Secondo me quel vestito azzurro sarebbe stato perfetto.»
Scossi la testa, non convinta. Volevo qualcosa di più delicato, non volevo essere al centro dell'attenzione perché lo sarei stata già abbastanza presentandomi con il figlio del festeggiato.
Mi guardai attorno disperata. Se non avessi trovato ciò che volevo sarei potuta rimanere a casa perché non avevo intenzione di presentarmi alla festa con un vestito qualsiasi.
Akito mi aveva detto che sarebbe stata una vera e propria serata di gala, quindi l'unica opzione era un abito da sera.
«Come lo immagini questo vestito?»
«Come quello...»
«Devi essere un po' più precisa, Sana. Non ho idea di cosa sia quello nella tua testa!»
Le afferrai le spalle e la feci voltare. «Quello!» dissi indicando l'abito nella vetrina di fronte a me.
«Ma non avevi detto che non volevi niente di appariscente?»
«Ma è perfetto.» mi limitai a dire prima di trascinarla nel negozio e, nel giro di mezz'ora, far strisciare la carta di credito e comprare, finalmente, l'abito dei miei sogni.

Akito.

Fu come vedere una Venere tra le macerie.
Sana avanzava lentamente verso di me che l'aspettavo appoggiato alla limo che ci avrebbe portato alla festa, e l'unica cosa che riuscivo a percepire era la sua bellezza fuori dal comune.
La guardai a lungo, mentre teneva il suo lungo vestito rosso tra le mani per evitare di inciampare sulle scale disastrate del suo palazzo, e più la guardavo più mi mancavano le parole.
Il vestito le lasciava le spalle scoperte e due maniche le cadevano lateralmente sulle braccia, la stringeva in vita con una cinta della stessa tonalità e poi si allargava in una gonna non troppo ampia. Quando scese l'ultimo scalino, per di più, la gonna si aprì mostrando uno spacco che le arrivava fin sopra il ginocchio.
Per poco non inghiottii la mia stessa lingua. Il colore era perfetto sulla sua pelle chiara ed era assolutamente fantastico accostato ai suoi capelli rossicci, lasciati liberi in delle piccole onde che le incorniciavano il volto.
«Sei... mmm... sei davvero...» balbettai non appena fu abbastanza vicina.
«Grazie.»
Aprii la portiera e l'aiutai a salire in auto, seguendola un attimo dopo.
«Sarò l'uomo più invidiato della festa.»
«Non penso proprio.» Si limitò a rispondere subito dopo.
Non dissi niente, ma la guardai a lungo. Non era consapevole della sua bellezza e la cosa mi infastidiva molto perché era impossibile che nessuno le avesse mai detto quanto fosse dannatamente attraente.
La guardai spostare ritmicamente la ciocca di capelli che le ricadeva sulla guancia, mentre si torturava le mani – il suo essere nervosa mi divertiva molto – o mentre fissava con gli occhi sgranati ogni luce, ogni grattacielo, ogni minuscolo particolare di una città che avrebbe dovuto conoscere bene.
Non avevo la minima idea di cosa stesse pensando, e cercai disperatamente di cogliere ogni più piccolo particolare, anche il suo più insignificante movimento per provare, perciò che potevo, a capirla.
Ma Sana era una persona difficile da leggere.
Anche se l'avevo guardata negli occhi un centinaio di volte mi era impossibile dire che la conoscevo. Non sapevo niente di lei, né di cosa provasse, eppure mi sembrava di conoscerla da una vita.
Era così vicina a me e così distante allo stesso tempo e comprenderla era un obiettivo non così facilmente raggiungibile.
Mi voltai a guardarla ancora, ma stavolta fui colto in flagrante.
«Che c'è?»
«Niente.» risposi, tornando a guardare fuori dal finestrino. «Non hai idea di quanto mia sorella sarà invidiosa di te, stasera.»
Sana corrugò la fronte, mettendosi una mano sotto il mento e strabuzzando i suoi occhi scuri. «Io penso che tua sorella mi ucciderà per aver davvero considerato l'idea di accompagnarti.»
«E per quale assurdo motivo?»
«E' ovvio: non sarò mai all'altezza del figlio di Fuyuki Hayama e del fratello della magnifica Natsumi Hayama.»
Quelle parole uscirono dalla sua bocca come un fiume in piena, ma perché avrebbe dovuto essere alla mia altezza se era solamente la mia segretaria che mi stava facendo un favore?
«Ehm... scusami.. ovviamente non intendevo... si, insomma...» balbettò subito dopo, toccandosi nervosamente le braccia. Era divertente vederla arrossire, con la voce tremante e l'imbarazzo disegnato su tutto il suo viso.
«Si, ovviamente, non intendevi...» la presi ingiro.
Sana accennò un sorriso e fece per dire qualcosa ma la nostra conversazione fu interrotta dal rumore del finestrino interno che ci separava dall'autista che si abbassava lentamente.
«Signore, siamo arrivati.»
Annuii. «Grazie Ken.»
Poi mi rivolsi verso di lei, cercando di calmarla con lo sguardo. «Pronta?»
«Magari.»
La portiera si aprì e le luci della mia vecchia casa per poco non mi accecarono.
Signori e signore, ecco a voi casa Hayama, la gabbia dorata in cui avevo vissuto per diciott'anni e in cui avevo promesso di non mettere più piede.

Sana.

La residenza Hayama era praticamente una reggia, l'enorme vialetto che ci accolse fece sembrare casa mia una vera e propria baracca – cosa che, in realtà, era eccome.
Akito sembrò intimorito quanto me alla vista di casa sua e per un attimo ebbi la voglia di prendergli la mano e rassicurarlo. Mi trattenni però: non potevo mettere in piazza quello che sentivo in quel modo troppo esplicito o le cose si sarebbero complicate ulteriormente ed era l'ultima cosa che volevo.
«Andiamo?»
«Andiamo.» ripetè Akito.
Improvvisamente, forse senza nemmeno pensarci, mi posò una mano sulla schiena e io sentii il corpo andare in mille pezzi che poi tornarono al loro posto in un millesimo di secondo.
La sensazione di formicolio che mi attraversò ovunque mi fece vacillare sui tacchi ma la mano ferma di Akito mi sostenne nell'entrare.
In fondo al lungo giardino c'era il padre di Akito – lo avevo riconosciuto per via di una fotografia che lui aveva in ufficio – e Natsumi, con quello sguardo borioso chele avevo visto addosso la prima volta che l'avevo incontrata.Mi sforzai di mostrarmi cordiale quando, di fronte a loro, Akito mipresentò.
«Questa è Sana Kurata, papà, una miacarissima amica.»
Prima ancora che potessi allungare la mano verso di lui, Natsumicorresse suo fratello. «E' la sua segretaria,papà. Cosa potrà mai fare la segretaria di un direttore di giornale, chissà!»
«Natsumi, non essere scortese. E' un piacere conoscerla, signorina.» disse il signor Hayama allungandomi la mano.
«Piacere mio, signor Hayama. Ha davvero una casa bellissima.»
«Beh, Akito potrebbe averla identica se solo non si ostinasse a perseguire questo stupido sogno del giornalismo.»
Rimasi sbigottita dalle sue parole, non mi conosceva nemmeno e si permetteva di deridere il figlio in mia presenza.
«Il giornalismo non è affatto uno stupido sogno... è un lavoro difficile e faticoso esattamente come il vostro.» mi affrettai a precisare.
Notai gli sguardi di Akito e Natsumi, probabilmente sconvolti perché avevo osato contraddire il padre, e poi sfoggiai il mio miglior sorriso.
«Ma non importa, possiamo accomodarci?»
Il signor Hayama si limitò ad annuire e fece segno ad Akitodi proseguire verso l'interno. Io lo seguii, cercando di non pestare il vestito.
«Sana Kurata, tu sei una continua scoperta.»
Sorrisi per quella frase buttata lì, mi sembrò di vederlo attraverso i suoi occhi quanto fosse sincero, ma potevo davvero metterci la mano sul fuoco?
Chi era Akito? Era davvero così come sembrava o faceva solo finta per essere perfetto ai miei occhi?
«E perché mai?»
«Nessuno – nessuno, santo cielo – si è mai permesso di rispondere così a quell'uomo. Probabilmente in questo momento starà curando le ferite del suo orgoglio in un angolino.»
Mi voltai verso suo padre e lo vidi discutere animatamente con Natsumi. «Io credo che stia infliggendo le stesse ferite a tua sorella.»
«Se devo sopportarlo io...» ammiccò Akito facendomi un sorriso. Mi avvicinai a lui per prendere posto a tavola e, in attesa della cena, rimasi in silenzio ad osservare l'ambiente.
Aveva ragione Akito: sembrava una vera e propria gabbia dorata, un luogo meraviglioso, certo, ma che non ti dava niente, nessuna emozione, nessun sentimento... spostai lo sguardo verso Akito che aveva gli occhi persi verso chissà quale pensiero.
La sua anima era inesorabilmente corrotta, esattamente come la mia, ma in lui vedevo la consapevolezza di poterla risanare. Akito aveva negli occhi quella forza che io non ero mai riuscita a raccogliere, quel sentimento di resilienza che per anni avevo tentato di costruire senza successo. Forse dipendeva dalla grandiosità del suo lavoro, forse perché aveva finalmente trovato il suo posto nel mondo... io non sarei mai riuscita a vivere come lui.
Dentro di me ci sarebbe sempre stato qualcosa di rotto, qualcosa che mai nessuno avrebbe potuto riparare, qualcosa che sarebbe rimasto con me per sempre.
«A cosa stai pensando? Sembra che tu stia psicanalizzando l'intera lista degli invitati.» chiese poi Akito, interrompendo il flusso dei miei pensieri.
«A nulla in particolare... solo a quanto sono certa abbia fatto schifo vivere qui.» lo provocai, prendendolo ingiro.
«Non hai idea.» scandì duro come la pietra, e sembrò quasi che le sue labbra vibrassero, lasciando intravedere i denti. Tutto in lui mi faceva capire che davvero quel luogo lo aveva segnato e che forse io non sarei mai stata in grado di capirlo perché non avevo mai sperimentato il dolore di essere distrutta dal tuo stesso sangue.
I miei genitori mi avevano abbandonata, ma per mia fortuna non li avevo mai conosciuti. Lui invece aveva sentito il calore di una famiglia, almeno per qualche anno, e poi lo aveva perso così, senza una vera ragione.
Lo guardai con dolcezza, ma non dissi più nulla.
La prima portata venne servita e la festa iniziò con un ballo tra suo padre e Natsumi.
E Akito?
Non era anche lui suo figlio?
Avrei voluto alzarmi e prenderlo a schiaffi, ma mi trattenni dal farlo perché notai immediatamente lo sguardo di Akito al mio fianco.
Cosa mi stava succedendo?
Perché provavo quel sentimento verso di lui?
Avevo chiuso la mia anima per così tanto tempo che non ero nemmeno capace di riconoscere le mie stesse emozioni?


***

«E quella chi sarebbe?» chiesi indicando una donna che stava palesemente subendo gli effetti di una sbronza colossale.
«Mia zia Kiki, anche lei è stata quasi ripudiata dalla famiglia perché fa la fioraia. La fioraia, ti rendi conto?»
Akito rise, portandosi la forchetta alla bocca e, per quanto mi sforzassi, anche quel semplice gesto mi fece venire i brividi. Mi domandai come mai un uomo tradizionale come il signor Hayama non avesse chiesto di mettere solo gli hashi, poi mi accorsi che erano presenti molti bambini piccoli che avrebbero avuto non pochi problemi con le bacchette.
«E come mai è stata invitata?»
«Perchè la mia famiglia è formata da un mucchio di falsi.» disse poi prendendo il calice e sorseggiando un po' di vino.
Mi tenni bene alla larga dall'alcol: dire che non lo reggevo per niente era un eufemismo e, se solo avessi bevuto un po'di quel vino, mi sarei ritrovata a ballare scompostamente proprio come stava facendo zia Kiki.
Mi persi ad osservare quel fiume di persone, impegnato in convenevoli disgustosi, e desiderai per un attimo essere come loro.
Tutta quella gente non sapeva neppure che significato avesse la parola dolore e l'unica persona che mi sembrava in grado di raccapezzarsi in quel frangente era proprio Akito.
Mi dispiaceva per lui, da quando eravamo arrivati suo padre non lo aveva degnato di uno sguardo e tutte le sue attenzioni erano rivolte verso Natsumi, la figlia adorabile e priva di carattere che aveva cresciuto.
Akito però sembrava non accorgersene, se ne stava lì a bere vino, a ridere con i commensali, a tirar via quel ciuffo di capelli che sistematicamente lo disturbava finendogli sugli occhi... eppure c'era qualcosa.
C'era qualcosa in lui che mi fece capire che avrebbe preferito fuggire, mandare tutto e tutti al diavolo – compresa me, forse – e non voltarsi più per guardare indietro. Forse era il modo in cui, ogni volta che poteva, lanciava uno sguardo avvelenato a suo padre, o forse il modo in cui lo ritrovavo a stringere i lembi della tovaglia di seta quasi come se volesse strapparla... erano tutti quei dettagli, agli occhi di tutti insignificanti e per suo padre addirittura invisibili che mi fecero realizzare quanto Akito fosse a disagio in quella situazione e con quelle persone.
Quando improvvisamente l'atmosfera in sala cambiò e le luci vennero spente capii che era arrivato il momento dei lenti, quindi mi voltai verso la pista da ballo e osservai tutti i mariti o i fidanzati che chiedevano alle loro compagne di seguirli al centro.
Vedevo gli sguardi delle donne fintamente sorpresi di quell'invito, gli occhi degli uomini adoranti e in attesa di un cenno... e mi sembrava tutto estremamente finto.
Bevvi un sorso d'acqua e, nello stesso istante in cui mi voltai per rimettere il bicchiere sul tavolo, Akito mi porse la mano e per poco non rischiai di soffocare.
«Balla con me.»
Non era un invito, era un ordine, anche se la sua voce presupponeva tutt'altro. Non era affatto l'uomo che pensavo che fosse: burbero, distaccato, totalmente indisponente.
Nonostante il suo cipiglio continuo sentivo dentro di me che era buono e, proprio per questo, non potevo legarmi a lui in alcun modo.
Lo avrei rovinato, avrei distrutto la sua anima pura e lo avrei mandato all'inferno dove chissà quanti aspettavano altri che me.
Se lui era morto – e speravo con tutta me stessa che lo fosse – ero certa che sarebbe finito all'inferno...
Abbassai lo sguardo incerta sul da farsi, provando con tutta me stessa a scacciare quel pensiero maledetto dalla mente, e Akito mi guardò in silenzio, non chiedendomi più niente.
Afferrò la mia mano senza aspettare il mio consenso e mi trascinò di peso verso la pista da ballo.
Per un attimo mi sentii la protagonista di un film.
Tutti ci stavano fissando, persino alcune cameriere si erano fermate a guardarci stupefatte, con la bocca quasi spalancata per la scena a cui stavano assistendo. Non avevano mai visto un uomo e una donna ballare?
Cercavo di concentrarmi nell'osservare tutto ciò che avevo attorno per evitare di mettermi a pensare a cosa stava succedendo dentro di me.
Mentre Akito mi stringeva in silenzio, mentre le sue dita sfioravano la mia schiena con delicatezza mi sentii improvvisamente cadere il mondo sulle spalle. Non che non fosse piacevole ballare con lui, ma era tutto sbagliato.
Io ero sbagliata, la mia vita era sbagliata, e lui non aveva idea di chi aveva davanti.
«Non avevamo detto niente balli?»
«Tu avevi detto niente balli, io ti ho solo assecondato.»
La sua voce aveva la capacità di calmarmi e mettermi in subbuglio persino la più piccola cellula allo stesso tempo e quella sensazione non l'avevo mai sperimentata con nessuno. Era pur vero che nessuno mi aveva mai trattata con lo stesso riguardo con cui invece si comportava Akito.
Nessuno tranne lei...
Scacciai immediatamente la sua immagine dalla mia testa, tornando a guardare Akito.
«Non hai idea di ciò che sta succedendo in questo momento attorno a noi... io non ho mai...»
Si bloccò improvvisamente fissando le sue iridi ambrate nelle mie, sentii il suo respiro ad un soffio dalla mia bocca e le sue mani che stringevano piano la stoffa del mio vestito.
Il suo protendersi verso di me, il suo ansimare piano, mi fecero capire che sarebbe stato capace di baciarmi in quel momento e per chissà quale motivo non mi scansai.
«Non ho mai ballato con nessuna prima d'ora...» finì la frase avvicinandosi ancora di più.
Mi mancò per un attimo il respiro e il calore che lui mi stava trasmettendo arrivò dritto al mio cervello che si spense definitivamente.
Gli occhi di Akito desideravano plasmarmi in quell'istante, volevano entrare dentro di me e scoprire perché ero com'ero, qual era il mio segreto.
E io non potevo di certo farli entrare.
Ma i suoi occhi erano lì, insistenti, pieni di domande, domande a cui non avrei mai e poi mai potuto dare risposta, domande che – ne ero certa – avrebbero riaperto ferite che solo con anni e anni di suture ero riuscita a ricucire.
E loro invece non facevano altro che torturarle, lasciandomi lì senza niente: senza cuore, senza anima, senza una goccia di sangue... come se non fossi mai esistita e iniziassi a respirare in quell'istante.
Ma io non ero una stupida e, sicuramente, Akito non era cieco: sapeva bene che qualcosa mi frenava, che non riuscivo ad essere me stessa in una situazione come quella.
«Se vuoi possiamo tornare al tavolo...» propose lui, allontanandosi leggermente.
Scossi la testa senza dire nulla.
Per una volta volevo vivere i miei ventisei anni senza il peso del mondo sulle spalle, senza pensare alle conseguenze e a ciò che avrei potuto dire o pensare il mattino seguente.
Chiusi gli occhi e sospirai, beandomi del suo odore. Sapeva di limone, di erba fresca appena tagliata, di quelle giornate che ti annunciano l'arrivo imminente della primavera, quando i ciliegi iniziano la fioritura e il mondo attorno si riempie di quel profumo dolce e inebriante.
Sapeva di tante cose, Akito... e sapeva di pericolo.
Sapeva di dolore soprattutto.
Non riuscivo bene a capire se mi stessi allontanando per non provocare sofferenza a lui o se la mia era una questione puramente egoista e tentavo semplicemente di proteggere me stessa.
«Io...» iniziai, attirando la sua attenzione. «Nemmeno io ho mai ballato con nessuno, per la cronaca.» confessai infine, sorridendogli.
«Pensi che come prima volta sia stata soddisfacente?»
Solo a sentire quelle due parole mi vennero i brividi...

La tua prima volta godrai così tanto che ti sentiranno urlare dalla strada, bambina.

La sua voce attraversò le mie orecchie e mi colpì proprio dritto al centro del petto, mi si mozzò il fiato per un secondo.
Dopo anni e anni anche la sua non presenza mi tormentava.
«Sana? Tutto ok?»
Anche il suo non esserci mi faceva sentire come se non meritassi l'amore di nessuno, tanto meno uno come Akito Hayama. Un uomo che non era in grado di fare del male nemmeno al suo peggior nemico, un uomo che, se mai avesse scoperto chi ero realmente, mi avrebbe guardato con disgusto.
E io non avrei mai potuto sopportare anche solo l'idea di ricevere uno sguardo come quello, non da Akito.
«Sana?»
Solo quando Akito mi chiamò per la terza volta mi resi conto di ciò che stava accadendo.
Guardai la mia mano stretta sul rever della sua giacca scura, le nocche erano quasi totalmente bianche e la stoffa si era stropicciata in più punti.
Allontanai immediatamente la mano. «Scusami... scusami, davvero Akito, non so cosa mi sia preso, io davvero...»
«E' tutto ok, Sana.»
Mi accarezzò delicatamente la testa, sfiorando poi le punte dei miei capelli e giocandoci, toccandomi strategicamente la schiena mentre lo faceva.
Tentai istericamente di far ritornare la giacca com'era prima della mia piccola crisi nervosa ma fu tutto inutile e, mentre con le mani continuavo a tentare di stendere la stoffa, Akito mi catturò i polsi e li strinse tra le sue mani.
«Adesso basta, Sana.» disse categorico. «Non ce n'è alcun bisogno. E' l'effetto che fa la casa stregata alle belle donne come te: dopo qualche ora cominci a sentire il bisogno impellente di scappare.»
Amavo la sua capacità di dissimulare tutto, persino la cosa più grave, persino quello che avevo appena fatto. Non mi aveva messa in imbarazzo e, non saprei dire per quale motivo, quel piccolo gesto di riguardo mi fece riempire il petto e i miei occhi si ribellarono, buttando giù una sola lacrima.
La sentii cadere piano sulla guancia e per me fu come una specie di miracolo.
Non piangevo da anni.
Anni.
Da quando avevo lasciato casa sua e mi ero ritrovata a sentire la sua mancanza più di quanto avrei mai potuto immaginare, era successo al primo bar di Tokyo in cui avevo messo piede. Avevo mangiato qualcosa, mi ero riscaldata perché fuori era pieno inverno, e infine avevo deciso di gettare il mio vecchio cercapersone esattamente come stavo gettando via la vecchia Sana.
Nemmeno lei mi avrebbe più trovata...
Piansi a dirotto. Pensai a quanto lei stesse soffrendo, a quanto anch'io soffrissi perché dopo tanto tempo era stata l'unica cosa bella della mia vita, ma io non ce l'avevo fatta più.
Non potevo sopportare una vita incentrata sull'amore quando l'unica cosa che avevo conosciuto in diciassette anni di vita era il sopruso.
La mano di Akito mi accarezzò la guancia, scacciando la lacrima, e per un attimo mi sentii quasi scippata di quel tesoro tutto mio, poi realizzai il suo ennesimo gesto premuroso e mi trattenni dal piangere ancora.
«Non piangere, Sana... la mia giacca è sana e salva, basterà una stiratina e tutto tornerà come prima.» disse sorridendomi. Sapevo che non diceva sul serio, che era il suo modo di sdrammatizzare quella situazione, quindi ricambiai il sorriso e cercai di mostrarmi più serena.
«Lo so, non è la giacca il problema...»
«E allora?»
«Nulla, Akito. Solo... grazie...»
«E per cosa, per averti pestato i piedi? E' per questo che piangi, non è vero?»
Abbozzai un mezzo sorriso. «No, è solo che...»
Prima ancora che potessi finire la frase una mano enorme si poggiò sulla spalla di Akito e, ancora prima di alzare lo sguardo, sapevo già che si trattava del signor Hayama.
«Figliolo, permettimi di ballare con la tua dama.»
Il suo tono non ammetteva repliche, perciò Akito – con il viso forse più corrucciato e sconvolto del mio – si spostò lentamente e, dopo avermi posato un leggero bacio sulla guancia, mi lasciò nelle mani di suo padre.
«Allora, signorina Kurata. Lei sa ballare il waltzer? Vorrei scambiare quattro chiacchiere con lei, se non le dispiace. Le prometto che la rimanderò da mio figlio in men che non si dica.»
E quella fu la mia fine perché, punto primo: non avevo idea di come si ballasse il waltzer, punto secondo: di che diavolo voleva parlarmi?, punto terzo: che cosa era appena successo con Akito?






Buona sera a tutte ragazze :)
Sto pubblicando adesso perchè poi, settimana prossima, ho esami e non avrò modo di pubblicare. Sto cercando di rimanere abbastanza costante, ma purtroppo con la stesura mi trovo un po' in arretrato, per cui dopo questo capitolo dovremmo allungare un po' di più la distanza tra uno e l'altro.
Bene, spero che il capitolo vi sia piaciuto, finalmente c'è stato un avvicinamento tra Sana e Akito e lei sta finalmente iniziando a mostrare i suoi sentimenti, seppur in modo molto velato e molto, molto lontano.
Vi mando un bacio enorme e spero che mi riempirete di recensioni, ve lo ripeto: anche le più insignificanti parole per me possono cambiare il mondo, perciò inondatemi.
Grazie infinite, vi voglio bene.
Roberta.

Come si amano certe cose oscure.Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora