3. Scaglie di memorie: Nero

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Nero era tutto quello che non conosceva, e sebbene il bianco si riunisse a formare isole più o meno grandi, il nero rimaneva comunque infinito. Da quel nero derivavano angoscia e irrequietezza.

(Robert Musil)


Gli pareva di essere sospeso nel vuoto.

Un vuoto denso di ricordi e di disperazione; un vuoto portatore di malinconia e disgrazia.
Il nero era padrone di ogni cosa in quel posto: l'unico sprazzo di colore distinguibile era lo scintillio cupo e freddo di alcune gabbie per uccelli appese a mezz'altezza.

Timidamente e quasi titubante, prese ad avvicinarsi a quest'ultime, come un infante alle prese con un nuovo oggetto.

I suoi passi non producevano alcuna eco; nessun rumore mentre le sue suole si infrangevano contro un terreno e una via a lui invisibili.
Unica prova del suo passaggio, delle coppie di impronte che segnavano quella pacata distesa alle sue spalle.
Il solo suono udibile in quell'assordante silenzio era il cigolio sinistro di quelle voliere malridotte e rugginose.

E poi, improvvisamente, bianco.
Accecante, destabilizzante bianco.
E freddo. Tanto, troppo freddo.
Quella distesa di nero era, ora, una landa bianca.

[Neve, forse]

Tanto candida e pura, intatta.
Era così fuori luogo lui, lì.
Non era il suo posto. No.
Lì, la sua esistenza non lasciava tracce.
Non lasciava impronte.

[Mi sembra di impazzire]

Non riusciva a reggere quella visione, non poteva -semplicemente non poteva!- neppure guardarla senza provare dolore.

[Dovrei macchiarla]

Non sembrava una brutta idea, imbrattarla di un colore tanto bello quale era il nero.
Nero?

[Ma sì, qualche goccia di nero sulla neve]

Nero su bianco. Lo preferiva decisamente!
Ma non era più solo, qualcun altro gli era vicino.
Delle sagome inquinavano quello splendido paesaggio di purità e impurità, di luce e ombra, di chiaro e scuro.

Corpi, ossa, sagome familiari.
Era forse quella, sua madre?

[Così candida]

Era forse quello, suo padre?

[Freddo, immobile]

Erano tanto simili alla neve: lo stesso candore, le stesse macchie che annerivano i loro abiti, che macchiavano i loro volti, che coprivano le loro mani.

Come potevano loro, prima tanto incontaminati, essere adesso intaccati da quel colore?
Come potevano quelle sue mani, gocciolanti di quella sostanza scura e peciosa, essere prima chiare e immacolate?
Quelle stesse mani...
Le sue stesse mani non potevano che essere la causa di quello sporco.
Era lui a corrompere la purezza del resto?
Dovevano essere quelle stesse mani le portatrici di quella disgrazia.

Eppure, nulla di quella situazione lo disgustava: nulla di tutto quello riusciva a intaccare la sua calma.
Anzi, una strana euforia parve improvvisamente invaderlo e una risata incontrollata fuoriuscì con foga dalle labbra violacee e screpolate.

[Sono io...Sono io a controllare tutto!]

Ma un momento. Non poteva essere lui.

[Sì, invece]

Non poteva essere lui. Non avrebbe mai gioito per qualcosa di simile...

[O forse sì]

Era, sì, nel suo corpo, però non riusciva a controllarlo.
Sembrava quasi...

[...aver acquistato vita propria?]

Non poteva... Non doveva!

[Come puoi non rendertene conto?]

Aveva paura.
Voleva andarsene, scappare.
Era prigioniero di quel bianco macchiato di nero.
Era prigioniero del suo corpo.


[Ma non ti dispiace. Dico bene?]


Con un urlo intrappolato tra le labbra, quasi sul punto di fuoriuscire, Eren spalancò gli occhi e si mise a sedere bruscamente, la fronte increspata da goccioline di sudore freddo.
In un primo momento, disorientato dallo spavento, l'unica cosa che gli parve sensata da fare fu quella di controllare il battito del suo cuore, tentando di regolarizzare il respiro, mentre con le dita pareva quasi cercar di ancorarsi al pavimento per riprendere contatto con la realtà.
Un momento.

Pavimento?

Non fece neppure in tempo a chiedersi come fosse finito a terra, che si rese conto di un dettaglio particolarmente determinante: non si trovava nella sua casa.
Cercando un controllo che, in quel momento, sentiva perso chissà dove, il castano sgranò gli occhi nel tentativo di mettere l'ambiente a fuoco; vano sforzo di far tornare alla mente qualche ricordo che fosse d'aiuto.

Eppure, l'unica cosa che i suoi pensieri gli restituivano era l'immagine di se stesso che si distendeva sotto le coperte del suo letto.
L'unico passo intermedio tra il suo addormentarsi e lo svegliarsi in quel luogo era quell'incubo.
Momentaneamente, si premurò di mettere da parte quelle elucubrazioni, sforzandosi invece di far forza sulle braccia, per sollevarsi in piedi.
Una volta in posizione eretta però, complice la lunga immobilità e la paura crescente, le sue gambe parvero smettere di collaborare provocandogli una rovinosa caduta sul ginocchio destro.

Con una smorfia gemette debolmente, mentre tentava nuovamente di rimettersi in piedi.
I tremori che increspavano i suoi muscoli non lo aiutavano di certo ma infine, con un scatto che mise a dura prova la sua resistenza, riuscì finalmente ad arrivare alla spalliera di un divano -che aveva l'aria di essere molto costoso- per poi appoggiarvisi.

Deciso, scosse la testa e si portò la mano destra sugli occhi, tentando di mettere in ordine la situazione o, quanto meno, di capire dove si trovasse e perché.

Senza possibilità di controllarla, una risatina rauca e cavernosa gli sfuggì dalle labbra secche.
Pareva quasi che la sua mente si fosse già resa conto di qualcosa che lui ancora ignorava, qualcosa che non gli sarebbe affatto piaciuta.

Doveva essere ancora parte di un sogno.
Tutta quella situazione improvvisamente assumeva dimensioni irreali e pareva alterata.
Di sicuro, quello che stava avvenendo non poteva essere reale.
E, soprattutto, quel liquido umidiccio e denso che avvertiva sulle mani e adesso -di conseguenza- anche sugl'occhi, non poteva che essere un dettaglio onirico.

La risatina si intensificò di volume, fino a risuonare pienamente tra le pareti riccamente decorate della stanza.
Ma, se davvero era tutto nella sua mente, perché le percezioni sensoriali erano così accurate?
Come potevano le lacrime che gli solcavano le guance essere finte?
Come poteva esserlo anche la risata da lui prodotta e da lui tanto cristallinamente udita?

Mentre i tremori si intensificavano, appellandosi ad un coraggio che avvertiva tremendamente distante, Eren scostò la mano dal viso e permise ai suoi occhi di aprirsi.

Senza muovere un muscolo, senza generare un ulteriore suono, il ragazzo rimase fermo lì, in quell'angolo di mondo chissà dove, in quella stanza sconosciuta, ad osservare le sue mani.

Le sue mani coperte da una sostanza secca in certi punti e ancora grumosa in altri, che nella penombra di quell'ambiente pareva quasi nera.

Una sostanza che in realtà, senz'ombra di dubbio, era rossa.

Nothing left but pieces: brama di potere [Ereri]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora