Sos Abyss (2)

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Non ricordo d'aver mai consultato l'oroscopo, né tanto meno d'aver letto se per la Vergine  l'autunno fosse la stagione ideale.

Gli astrologi tentavano di abbozzare una verità astratta e generalizzata, non li amavo molto. Anzi, per niente.

Ma in quell'umida sera di fine estate, presi in mano le redini del mio oroscopo, e constatai assolutamente che io e Dion eravamo due astri, anzi, un'antitesi di astri.

Dopo la cena, mi offrii di prendere il dessert che si trovava nel frigorifero.

Non accesi la luce - gli ultimi raggi del tramonto fendevano le persiane, lasciando intravedere un piccolo lume in tutto il piano terra dell'abitazione. L'arancione sfrecciava prepotente sulle pareti in penombra e dei fili di luce ad intermittenza mi illuminavano gli occhi stanchi e arrossati.

Mi diressi quindi in cucina, ma prima di poter afferrare la cialda con la macedonia, che era stata accuratamente preparata da Jonah durante il pomeriggio, risuonarono nell'ambiente passi pesanti ed ormai palesemente riconoscibili per il mio udito.

I miei piedi si inchiodarono alle piastrelle del pavimento e il mio cuore pompava sangue impetuosamente, collericamente energico, e piccoli brividi iniziarono a punzecchiarmi i lembi di pelle, spuntando sulla carnagione chiara come piccoli bulbi che germogliano.

Sbriciai da sopra l'anta aperta, scorgendo lo squalo dall'altro lato della stanza... fermo, fisso come una statua di marmo bronzato.

«Sia chiaro, lentiggini. Non sono affatto d'accordo sulla tua intromissione nell'attività di famiglia» palesò avvicinandosi, con un battito di ciglia, al mio corpo sfatto.

Deglutii saliva amara – che mi accarezzò la gola arida – sentendo ardere sulle tonsille un disdegno distinto, accentuato.

Sentivo il suo sguardo disgregare in particelle microscopiche le mie piccole iridi, piegate all'interno della pupilla per la luce affievolita e quasi, ormai, assente.

Giunse alle mie narici il suo profumo legnoso, ligneo, fibroso che s'incuneò sotto ogni lembo di pelle rovente e canicolare, prendendo vita all'interno delle vene, urtando il sangue con una intensità fenomenica.

Ed aspirai tutta la fragranza tigliosa e lievemente impregnata di nicotina a pieni polmoni.

«Troppo tardi, Dion» sbriciolai un occhiolino provocatorio nel silenzio sovrastante del momento, che mi entrava dentro – nel petto, sino al cuore.

E dandogli la schiena, mentre mi porgevo all'interno del refrigeratore per prendere il dolce, mi tirò da una piccola estremità del giubbino di jeans che indossavo, facendomi voltare verso di lui.

Persi lievemente l'equilibrio, poggiando il palmo della mano allo sportello del frigo, mantenendo la stabilità sui miei piedi scoordinati.

«Stammi alla larga, lentiggini. Non sopporto la tua presenza, figuriamoci doverti vedere anche sul posto di lavoro», infranse l'ossigeno che spettava al mio apparato respiratorio, avvicinandosi ulteriormente «Non permetterò che tu prenda ciò che è mio».

Il refolo che emanarono le sue labbra schiuse – in una piega felina – mi titillò i fili carota che adornavano il volto, spettinati e scompigliati in onde crespe.

Si voltò in un rintocco d'ago, smuovendo i capelli corvini nell'aria ondeggiante e lasciando la giacca che riassunse la sua posizione naturale – lievemente stropicciata.

«E cosa, precisamente, è tuo?» domandai con accurata curiosità ed una rara istigazione.

«Ogni cosa».

Come danzano le ondeDove le storie prendono vita. Scoprilo ora