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"Chi desidera vedere l'arcobaleno, deve imparare ad amare la pioggia."(Paulo Coelho, Aleph, 2011). Elena distolse lo sguardo dalla lettura. Mantenendo il segno della pagina con l'indice, si portò le gambe al petto e stette ad ascoltare.

Macchine che per un attimo entravano nel suo campo uditivo e se ne andavano per non ritornare. Le lancette con il loro rumore sordo, meccanico, inesorabile. Il gocciolio del rubinetto che faceva a gara con l'orologio nello scandire il ritmo. Di quale canzone?

Silenzio.

Cosa mi vuoi dire, Paulo?

Silenzio.

Ti prego parlami.

Silenzio.

Non lasciare che mi perda.

Un respiro.

Giuseppe si girò su un fianco, abbandonando un braccio al di fuori del divano. Continuava a dormire. Elena notò che il suo viso, nascosto in parte dalla spalla, era leggermente contratto. Il suo mento pronunciato era attraversato da nervi che si mostravano ad intervalli, contorcendogli la bocca.

Si chiese se fosse in un sonno profondo, travolto dalle tensioni di un mondo oscuro ed inconsistente, oppure vigile, con la mente invasa da preoccupazioni, pensieri e paure, che non sembravano reali tenendo gli occhi chiusi. Preferì non darsi risposta.

Sciolse le gambe e appoggiò il libro aperto, in modo da non perdere il segno, sul tavolino di vetro. Incominciò ad avvicinarsi a lui in modo che non se ne accorgesse, a passi leggeri leggeri, prima appena toccando con la punta del piede il suolo, poi accompagnando dolcemente il peso del corpo. Ad ogni movimento serrava gli occhi, temendo di essere scoperta, di rompere il silenzio, come se rischiasse di interrompere una melodia che costruisce pensieri di carta nelle menti, destinati a crollare al termine della canzone. Elena non voleva che la sua dimensione di tenebra si chiudesse, desiderava entrarvi per poterla rischiarare.

Si piegò sulle gambe e appoggiò un avambraccio sul divano per sorreggersi. Lo guardò per qualche istante. Senza il suo sorriso spavaldo e lo sguardo giocoso risaltavano le guance, dolcemente deformate dal cuscino, e le lentiggini che, pur essendo quasi svanite durante l'adolescenza, velatamente continuavano a resistere, rivelando il volto puerile delle foto che la madre di Giuseppe le aveva mostrato.

Con piacere guardava il suo Giuseppe senza schermi, totalmente puro nella sua fragilità.

Cercò con le dita la sua mano, che, appena rientrata a contatto col mondo reale, ebbe un leggero tremito. Avendo capito da dove proveniva la percezione, la tensione del viso si tramutò in un leggero sorriso. Giuseppe intrecciò le dita con le sue, in un gesto abituale, riconoscendo la piccolezza della mano di Elena. Se la portò alle labbra e incominciò a baciarla lentamente, nocca per nocca, poi il palmo, poi il dorso. Le prese il polso e se la portò al petto. Sentiva la sua testa che gli premeva il torace. Si rese conto che, da quella posizione, Elena ascoltava il suo cuore. Non aveva mai riflettuto su cosa significasse quel gesto. Cosa c'era di interessante nei monotoni battiti di un cuore? Perché sembrava che Elena ne fosse affascinata? Il cuore batte allo stesso modo sempre, senza interruzione. Va bene, accelera o diminuisce a volte, ma non è niente di eccezionale, nulla di paragonabile a quella sinfonia di Beethoven che Elena ascoltava continuamente. Si concesse un sorriso. Pensandoci bene il cuore non batte in perpetuo. Ad un certo punto cessa. Chissà quanti battiti mediamente scandiscono il ritmo della vita di una persona. A rigor di logica, ci deve essere stato un primo battito, la prima nota della canzone. Il primo suono timido che annuncia una nuova esistenza. In quel momento, amaramente si chiese se il cuore del suo bambino aveva già cominciato a battere.

Una storia che non esisteDove le storie prendono vita. Scoprilo ora