Non lo poteva fare. Non si doveva permettere. Lui aveva rinunciato a tutto per starle accanto, per accompagnarla in questo folle cammino, ma esso era chiaramente risultato un vicolo cieco. Perché andare avanti? Per condannare non due, ma tre persone ad una vita infelice ed insostenibilmente ardua? Colma di affitti arretrati, notti in bianco, litigi, straordinari per cercare di mantenere quello straccio di appartamento ed, in più, un poppante? No. Non ci stava più. Non avrebbe più assecondato le fantasie di quella bambina capricciosa che sognava la famiglia felice, gioiosa e beata, dove la mamma cucina il polpettone col grembiulino bianco e chiama gli altri a tavola col triangolo. Perché cavolo le aveva fatto credere che quelli sarebbero potuti essere loro, i genitori maturi che sgridano il figlio se imbratta il muro coi pennarelli, che si danno il turno la notte per farlo riaddormentare, che, mano nella mano, riescono a sostenere il ruolo titanico che quel marmocchietto aveva affidato loro?! Perché voleva così tanto quello stupido bambino? Era un errore. Un errore. Che si poteva ancora risolvere.
Tese il braccio e bloccò la porta.
Devo fermare questa scenata infantile. Deve capire che non stiamo più giocando. Con le buone o con le cattive.
Elena arrestò il passo e lo guardò. Giuseppe notò compiaciuto che la sicurezza effimera del momento prima sembrava stesse crollando come un castello di carte. Una resistenza simile ad un filo di ragnatela, troppo sottile per resistere anche alla sola forza del vento.
No tesoro. Ora non si fa come vuoi tu.
Si protese in avanti e ferocemente le afferrò un polso, tirandola verso di sé, guardandola con occhi pieni di niente, invasi dall'oscurità del nulla, tanto temuta dai bambini sognatori. Elena si perse in essi, come se celassero le tristi verità del mondo, convincendosi che quello era il destino inevitabile, immodificabile, come non si poteva cambiare la gravità che attira verso il basso o il movimento dei pianeti.
Ma era altrettanto naturale che una madre uccidesse il proprio bambino? Cancellare l'essere che avrebbe dovuto proteggere con la sua stessa vita? Tagliare il gambo ad un fiore non ancora sbocciato?
«Io non sono un'assassina.»
Il suono di questa parola che mai avrebbe pensato di attribuire a se stessa le squarciò le viscere. Il dolore atroce di una colpa non commessa la sommerse, le occupò i polmoni. Non respirava. Desiderava l'aria ma non voleva concedersela, sentiva il suo corpo che voleva vivere e continuare a respirare, ancora e ancora, un bruciore che parte dallo stomaco che sale e si rafforza, la sopravvivenza che si scontra con la volontà, che alla fine soccombe sotto il potere della vita. Mai aveva percepito la preziosità dell'esistenza e come essa combatta per se stessa. Un soffio magico che invade la materia e la tramuta in essenza, che le dà valore, potenziale, capacità di mutarsi e mutare. Unica cosa per cui, in quest'universo di cose inanimate e silenzio, valga la pena di combattere. La vita del suo bambino era troppo fragile per proteggersi da sola, ma, fino al momento in cui sarebbe stata in grado di provvedere a se stessa, avrebbe pensato lei a difenderla.
La contrazione del viso di Giuseppe cominciò ad allentarsi, dai tratti, prima apatici, traspariva angoscia che sempre più annebbiava la mente, sfocava la vista, rammolliva gli arti. Elena se ne accorse e strattonò il braccio, prima bloccato con forza, senza il bisogno di insistere. Indietreggiò temendo una nuova aggressione, ma Giuseppe non c'era più. Era immobile, testa china e braccia abbandonate a se stesse, tenute dritte dalla sola forza di gravità che, senza il sostegno delle gambe, le avrebbe schiacciate a terra non incontrando nessuna resistenza. Rimase a guardarlo, ma Giuseppe non la vedeva. I suoi occhi la fecero rabbrividire. Sbarrati a guardare il terreno senza percepirlo, chiusi, sebbene aperti, al resto del mondo che lo circondava.
Elena aggiustò la borsa sulla spalla e se ne andò costringendosi a non voltarsi. Allontanandosi, sentiva l'aria tornare pulita, respirabile. La sua mente era atrofizzata. Non sapeva dove sarebbe andata, in quel momento riusciva solamente a dare piccoli e semplici ordini al suo corpo: prima un piede, poi l'altro, prima un piede, non voltarti, non voltarti...
Le orecchie di Giuseppe avevano recepito i suoi passi che mano a mano si alleggerivano, si smaterializzavano. Sentiva il corpo troppo pesante per potersi muovere. Tornò il silenzio. Solo una voce assordante echeggiava senza sosta nella sua testa, quella di sua madre che diceva: «Ti sei cacciato in un bel guaio da cui non puoi scappare caro mio, ne pagherai le conseguenze per sempre, in un modo o nell'altro...».