La morte di Patroclo (Ettore)

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Destato dal tetro stormir degli avvoltoi, l'illustre, ora, si erge possente. La fresca ghiaia, ora scarlatta, vibra ancora sbigottita per le urla d'agonia. Parte di essa fluttua ancora nel vento, librata in aria dal soffio vitale dello sconfitto. Assaporando  il metallo, che gran parte dei fratelli uccise, il guerriero sente le carni venir meno. Non circola irata bile, né ansima il cuore in petto, né suonano i fili portatori di parola. Isolate nel vuoto, giacciono dilatate le ancora scosse iridi da tale vista. L'uomo non distoglie lo sguardo dall'ancora roseo palmo del nemico, marchiato d'un segno narratore di sangue, che favola bella illude. Repentinamente le membra si tingono, ora di sole, ora di pioggia, ora di guerra, ora di pace. Fondendosi alla visione, le mura di ilio , lasciano il quadro giocondamente immutato. Sconvolta, l'immagine del campo di battaglia, lascia il posto al contorto Pelide, il quale rantola nel buio in cerca di morte. In un istante, il vincente contempla il figlio gemere, sfumare, improvvisamente, nel guerriero che semidio protesse, nella persona che il giovane acheo fu. Così, il magnanimo si erge nel nulla, nello scorrere del tempo, in uno scorrere di ruoli, senza bene né male, dove lui, implacabile colosso, pedina del fatto, riversa la sua umanità in una lacrima, posata in punta di piedi su una promessa spezzatasi.

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