Heìrrzen Arer Anasazur Yilliahn Vohn Vendas, II

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"Sì, con un esercito del genere a mia completa disposizione potrei conquistare facilmente almeno metà di questa bolla dimensionale, posto di riuscire nella difficile impresa di coordinarne i mille generali, uno alla gola dell'altro, e facendo sì che i suoi soldati puntino le armi nella direzione che voglio io.

È più semplice dirlo che farlo."

-Aristarkòs VI, Principe-Giudice di Elygian, durante la Spedizione in Ach-Lorar, raccontata nei due Volumi dell'Anakatabàsys.



Arer tamburellò sul davanzale della finestra. Al di là dei vetri aperti, inquadrati in una cornice a taglio alto e arcuato, una coppia di stendardi rispondeva, agitandosi, al vento mattutino.

Sulle loro lunghe distese, marcate dai colori ogni-nazionali della Nube della Turangheela la corrente scolpiva increspature passeggere, più effimere di un sospiro. Il tempo di apparire e il ritiro del vento le distendeva, riportandole al viola del campo rettangolare o nei grani bianchi, azzurri e rossi delle due concatenate cinture di soli.

I suoni della città che ritornava alla vita facevano compagnia allo scorrere della corrente che, scavalcando i bastioni cittadini da nord-ovest, danzava tra le antiche mura del Palazzo Far-Ahn-Sì.

Un tempo erano state meraviglie locali, degne d'essere omaggiate come l'ultima opera magna compiuta da una schiera di giganti. Genti da tutti gli angoli di Taj-Qhal erano venute a vederle, alzando la testa per riuscire a coglierne la statura.

Arer continuò a tamburellare. Mura ciclopiche. Una prova della gloria di quel passato militante e imperiale che apparteneva al sangue assopito delle popolazioni turangheele, il traguardo insuperato contro al quale le loro stesse generazioni discendenti avevano inveito a pugni chiusi, oltraggiate dal non poterle superare.

Sessantacinque metri di roccia strappata alle cave sotterranee di Zhenqiu, Xian-vlin e Atkama, impastate e fuse con grandi lastroni di pietra trainata a fondovalle dalle Grandi Cime di Aspsidshèh. Potenti sortilegi erano stati versati in ciascun blocco, al fine d'intessere una trama d'invincibilità che si agganciava ad ogni torrione della cinta muraria.

Le mura di Castellar Vendas erano alte settanta volte quelle palizzate abbellite, ed avevano più di venti volte la loro età.

I leggendari bastioni di Poelissa TIblejra erano franate a terra in meno di dieci minuti quando la più moderna artiglieria campale a disposizione del Corpo di Spedizione Volontiveo, le batterie armate con gli haelvici Langörser calibro ottantuno millimetri e i chazarici obici Tsarasbòv da ottantacinque, avevano aperto il fuoco.

Gli sfuggiva quale processo cognitivo avesse condotto i sanya-tsinghores a confidarci così tanto; L'ignoranza? Una spropositata fiducia in sé stessi?

Non era stato necessario sfoderare gli obici pesanti, i mortai campali o le batterie-helepoleìs. Apheljana si era detta dispiaciuta, citando il mancato bisogno di quelle potenti bocche da fuoco come una mancata prova sul campo. Era una vaykhiine dalla pregevole predisposizione al pragmatismo.

Arer appoggiò il gomito sul davanzale e tese l'orecchio alla città che si dipanava vasta e tentacolare nelle ombre del palazzo. I negozianti più coraggiosi rumoreggiavano ormai da qualche minuto accanto alle loro botteghe, sollevandone le saracinesche e spalancando le varie imposte.

Frotte di mishreì driathee e piccole lavandaie locali si raccoglievano lungo le grandi anse bianche e verdi del Bho-Laush Yanarl per sciacquare i panni, allestire stalli e modeste pescherie, tessere abiti d'acqua e vociferare tra loro. La sua corsa si gettava a capofitto nell'espansione della città, tagliandola in tre grandi isole connesse da molti ponti.

Il volo dell'Aquila DayrakynaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora