6.
E fu così che io, Filippo, incontrai lei.
Ma ora non vorrei che immaginiate questo incontro come qualcosa in cui immedesimarsi, come il colpo di fulmine, lo scirocco dell'amore, né che lo idealizzaste insomma.
Niente di tutto questo.
Facciamo che appena la vidi scattò in me quella scintilla umana e quindi animale di attrazione, quell'arcano umano e forse anche animale di fatalismo. La ricerca del bello e dell'effimero, opposizione a tutto ciò che avrà una fine, sia esso per tormento o si esso per fortuna.
E fu così nel momento in cui la vidi, nella vecchia piazza del villaggio abbandonato, tra le case senza più anima. Lei sola, con la l'amica, e perfettamente assorta nel suo mondo patinato di bianco e di nero.
Facciamo che ne parlerò al passato, come di tutto quello che fu un giorno, un'ora, forse anche un minuto fa, e che di sicuro non tornerà più. Facciamo che ne parlerò in terza persona (ma so già che non ci riuscirò) per rimuovere quel fastidioso filtro rosa plastificato che si usa nelle commedie romantiche.
Dicevamo, appunto.
In quei momenti Filippo vagava nel paese abbandonato, fantasma tra i fantasmi.
Matilde era a pochi passi e aveva una foto in mano. Una nebulosa separava il suo volto da quegli spiriti, i volti delle persone che, quasi un secolo prima di lei, avevano respirato nello stesso identico punto, e pensato, ed esistito allora, e adesso non più. Di certo passò tutto questo per una frazione d'attimo nella testa di Matilde, così entusiasta, così gracile. Era tutto ben chiaro a lei e alla sua catatonica compagna di viaggio e tutte le attenzioni restavano focalizzate su quella foto. Era davvero lo stesso posto, sebbene più felice, sebbene fresco di vita e privo di silenzi. La stessa piazza? Gli spiriti catturati dall'istantanea, i loro abiti foderati e gelosamente preservati per il dì di festa. L'amica non sembrava forse cogliere l'anima e il fascino di quello che fu in quella piazza. Dal canto suo Matilde non riusciva ad essere certa se quello che fu fu in quella piazza o no. E così, sentendo Filippo,sentendo me avvicinarsi, con un fiotto di fiducia nella sensibilità del prossimo, senza nemmeno guardarlo in faccia, glielo chiese.
Filippo, nemmeno uno sguardo, impresse nella mentre già la fessura morbida tra le sue labbra, immaginò il suo sorriso. Non era però pronto a colpirla con una risposta d'acume. E così, non volendo, fece esattamente quello che lei voleva, ovvero osservò la foto con attenzione.
Non è così scontato che fosse proprio quello il posto nella foto, poteva essere una qualsiasi piazza di un qualsiasi villaggio di cent'anni fa. Ma forse si, forse era proprio quella piazza.
Che importava?
Importava eccome, fondamentale nell'immaginario di Matilde essere dove il tempo era fermo, in bianco e nero. "Dove l'hai presa?" forse la cosa più sensata da dire in quel caso.
Impossibile ascoltare la risposta. In quei secondi in cui la testa di un uomo analizza la prima volta la voce di una donna, registrata dai suoi nervi, deve ben discernere nelle cortecce superiori se quella voce gli provoca più sensualità o sentimento, se potrebbe tornare utile per momenti di solitudine e abitudine o (volendo uscire da questo malcelato cinismo) per fiabe sognanti raccontate sotto la luna piena. In quei secondi l'informazione della risposta restò intrappolata nelle fibre uditive di Filippo, mentre al suo cervello arrivava altro. O forse niente.
Filippo si ritrovò con la foto in mano, ben prima di realizzare che proprio quello stava per chiederle.
Bastarono pochi secondi a Filippo per imprimere molto bene nella sua testa quella foto: la visuale si apriva in un'ampia gamma di colorati grigi su tutta la piazza di Romagnano. Tutto prendeva il via da tre sagome che si stagliavano su una vecchia cinquecento. Delle tre sagome due erano appena bambine. Bambine che sembravano di terracotta, elegantissime,curate, entrambe con una fascia bianca tra i bei capelli fulvi. A poca distanza un signore anziano, più alto solo di qualche centimetro, anche lui tirato a lucido, completo nero e splendente come solo al dì di festa. Sulle loro teste pendeva una targa, scolpita nel muro.
A poca distanza altri tre scalmanati bambinetti, gli unici forse invita ancora oggi. Giocano, giocavano, intorno ad una fontanella di stagno, un putto da cui zampilla acqua viva.
E poi proseguendo ancora rispettabili commercianti in giacca e abito e le loro ombre nere allungate sul lastricato della piazza. La coppola foderata sulla testa. Sullo sfondo un crocevia di case allungavano la prospettiva all'indietro. Una di esse riportava un insegna, un bar, una gelateria. Ora neanche c'è più, quell'edificio. Infine la cattedrale, una magnifica facciata neoclassica napoletana. La si intravedeva appena.
Ma adesso niente di tutto questo.
Di niente c'è traccia oggi, nella città-rovina. Ad una rapida occhiata, degli edifici rimasti in piedi, nessuno può dire se sono gli stessi o meno. C'è però la targa, una prova, ancora nel muro.
E anche questa volta Filippo non ebbe il tempo di indicarla a Matilde che lei l'aveva già vista ed era a poche spanne da quella targa, tutta impolverita.
La targa era scolpita tra fasci littorei. Tra il balcone e le due vecchie porte di legno rancido. Qualcosa la si può ancora leggere tra i due fasci di granito .
18 Novembre 1935 XIV
A ricordo dell'assedio, perchè resti documentata nei
secoli l'enorme ingiustizia consumata contro l'Italia,
alla quale tanto deve la civiltà di tutti continenti
Interessante. "Ah, comunque piacere, io sono Matilda!"
In quel momento e da quel momento Filippo aveva capito che la sua anima e quella di Matilde avevano stabilito una sorta di connessione, avevano tra di loro un contatto telepatico.
7.
Era la piazza collocata nei pressi dell'unico accesso ancora possibile a Romagnano, prima tappa obbligata per ogni visitatore del nuovo millennio, e fu perciò ovvio che la nostra strada sarebbe dovuta essere unica e che dovevamo proseguire assieme dal punto dove c'eravamo incontrati.
Come spesso nelle piante cittadine da ogni piazza si snoda un cardo o un decumano. Così per anni anche a Romagnano si era plausibilmente snodato un breve e scosceso stradone, quello che doveva essere stato il corso del paese, irto di ruderi che erano ancora fieramente dritti su se stessi e lo delimitavano. Di questi ruderi c'è da dire che non erano come si immagina solitamente, ammassi di sassi, bensì enormi ventri cavi di cetacei spiaggiati.
Ogni casa conservava più o meno dignitosamente la sua facciata, molto più spesso solo il portico di pietra, ma dentro di se era vuota.
Sprofondava diversi metri sottoterra ed era il buio a impossessarvisene.
Facendo luce con la torcia dello smartphone io, Filippo, riuscivo a coglierne la profondità e la totale assenza di ogni testimonianza umana, gli abitanti avevano forse portato via tutto.
Il segno della presenza umana era però sulle nostre teste: un lungo pontile di ferraglie, progettato per una messa in sicurezza mai avvenuta. Tanto che oramai quel pontile poteva essere considerato archeologia industriale.
Mentre io mi guardavo attorno, con l'animo e la tempra del bravo esploratore di misteri e di civiltà perdute, le due ragazze mi seguivano senza che io potessi vedere in loro una briciola del mio ardore e della mia curiosità. Rivolgendomi a loro ne scopriì gli impieghi momentanei, o meglio vidi che Matilde stava frugando tra le sue cose alla ricerca disperata di un qualcosa che ben presto si rivelo essere un'altra delle sue foto d'epoca.
Subito, come se ci fossimo conosciuti ancora bambini in una calda estate di tanti anni fa, mi mostrò la nuova foto, con uno sprazzo di gioia infantile.
Questa volta c'era molto meno da dubitare: per lo spazio tra le abitazioni e la particolare inclinazione della strada sembrava essere proprio lo stesso posto dove ci trovavamo in quel momento.
Anche quella foto la ricordo abbastanza bene, non tanto per lei questa volta, ma per la netta meraviglia che si provava nel vedere quanta vita c'era nell'affacciarsi in quella macchina del tempo. I ruderi erano ovviamente in piedi, piccoli palazzi delle famiglie dei commercianti, per cui i portici erano ricchi e imbanditi, le lenzuola bianche stese al sole, e alla loro ombra vecchie ricamatrici dell'antica arte dell'uncinetto. Il mio immaginario non restava deluso dall'abbondanza di timide bambine e galli e galline in corsa, in un tumulto e un disordine generale, tra spighe di grano e nocciole essiccate al sole. Il sole abbagliante e i sorrisi marchiavano i loro volti.
Io e Matilde non sentivamo la necessità di parlarci, ma la sua eccitazione per la nuova scoperta sfociò in un un fiume di osservazioni pittoresche, spesso sconnesse ma molto coinvolgenti. Riguardo me, cercavo sempre di non sviare i suoi discorsi e mi divertiva il suo fantasioso tocco e il suo modo di vedere le cose. Ci ritrovammo così a parlare dei suoi viaggi, e del suo singolare Erasmus in Romania, dove mi diceva di aver rivisto molto del nostro passato oltre che una serie di fantastici monasteri bizantini in Dobrogia. Mi disse di sua nonna, che a quanto pare era originaria pressapoco delle zone dove ci trovavamo adesso.
Apprezzai su tutto il fatto che lei non pretendesse di sapere nulla su di me, cosa che invece la sua amica non tardò a fare.
Intanto eravamo giunti dove il corso si diramava in anfratti e vicoli scoscesi, in cui erano ancora evidenti tra gli scalini irregolari i solchi scavati per carretti e trasporti a ruote.