La ripida e stretta discesa del vicolo si faceva sempre più fitta di erbacce e arbusti, per poi curvare bruscamente. Diverse porte in legno aprivano questo angusto spazio. L'accesso che garantivano era il più delle volte un passaggio dall'aria aperta verso altra aria aperta, ma accedendo ad alcune di esse ci si trovava realmente in umili ed anguste abitazioni, ovviamente abbandonate alle incurie e alle intemperie. Matilde volle continuare finchè, sbucando fuori dal vicolo, ci si trovò improvvisamente in aperta campagna. Lo scorcio era particolarmente suggestivo perchè questi muri rovinati, del colore della terra, bagnati dal tempo, erano residui che si aprivano tutto d'un tratto su un dolce promontorio e ancor prima su uno strapiombo di arbusti. Intorno allo strapiombo si affacciavano altri muri caduti e strumenti arrugginiti. In lontananza,incastonata tra i dolci rilievi, si intravedeva la vecchia ferrovia abbandonata, un filo di ferro antico, che compariva e scompariva nel ventre della montagna. La dicromia del paesaggio ne esaltava la bellezza. Del colore della terra e del verde degli alberi qualsiasi cosa attorno a noi. Era la natura che si stava riprendendo ogni cosa. Ero estasiato dal paesaggio tanto da voler salire sulle scalinate di una di quelle case di campagna per godermelo meglio. Dall'alto un terzo colore si aggiungeva alla tavola, il rosso dei mattoni e dei tetti caduti. Inoltre il verde a tratti si ingialliva, come si erano ingiallite a tratti le pareti interne delle case sventrate viste dall'alto e le travi di legno esposte al sole. Sull'ultimo scalino notai il braccio mutilato di una bambola di plastica, tra le schegge di mattoni, e Matilde subito si precipitò da me. Nel salire le scale, per un attimo soltanto, perse l'equilibrio e io ebbi paura almeno quanto lei, tanto che in meno di un secondo l'avevo già afferrata per i polsi e tirata verso di me. Prima che uno splendido sorriso, il suo volto mi rivelò un'espressione di dolore lancinante. A fatica staccai i miei occhi dai suoi per notare che entrambi i polsi li aveva lividi e violacei. Matilde me li nascose e mi ringraziò subito. Riconoscendo il pericolo sventato, restò aggrappata al mio braccio nello scendere la scalinata. Nonostante questo episodio lo spirito di avventura non ci abbandonò e, ignorando gli sbuffi dell'amica, ci apprestammo a risalire da un altra stradina, forse più impervia, quando ritrovai sepolto tra le erbacce un vecchio libro ammuffito, un quadernone, che con buona immaginazione si rivelò essere un libro di scuola, o almeno un manuale per maestri elementari, per l'insegnamento. Il sole in quel momento stava iniziando la sua inesorabile discesa e il cielo si tingeva di altre sfumature e scie colorate.
9.
Matilde prese con sè quella vecchia pila di pagine umide. Eravamo intanto giunti ad una piazzetta minore. Le porte in legno delle case erano ormai marce ma ancora in piedi, dai mattoni e dai sassi delle case nascevano rampicanti e ciuffi di rami e di foglie, di muschio. L'odore era quello dei campi di calcio incolti. Anche questo spiazzo, nonostante fosse collocato più in alto rispetto al precedente, esitava in una roccia e in una discesa nel vuoto. Nei pressi della roccia si intravedevano, come fossero di migliaia di anni addietro, i basamenti di un antichissimo edificio che Matilde riteneva essere la Chiesa delle Rocce. Non le chiesi da dove aveva preso quelle informazioni perché ero assorto ad osservarla, curioso animale selvatico, zampettare elegantemente verso un portico in pietra su cui, anche se parzialmente sbiadita, si leggeva ancora "Scuole dell'Infanzia". Le bastò uno sguardo per comunicarmi la sua intenzione di entrare, e io la seguii di nuovo, senza proferire verbo. Gli sbuffi dell'amica si accompagnarono questa volta ad un netto rifiuto di entrare. Così mi trovai finalmente solo con Matilde. La scuola era un altro ambiente freddo e disadorno, i pavimenti intatti ma le mura spoglie, si faceva fatica a credere che quella fosse stata davvero una scuola. Attraversammo un lungo corridoio sulle cui pareti della carta da parati si stava staccando e lasciando spazio allo stucco bianco, e questo a sua volta ai mattoni. Era la struttura decisamente più recente di tutte quelle viste finora. Nonostante questo bisognava fare lo slalom tra i calcinacci e il pericolo che tutto ci cadesse in testa era concreto. Scoprii ben presto che questo eccitava Matilde, più che spaventarla, e accolsi la sua osservazione col sorriso. Io solo a quel punto decisi di farle sapere che quella, con tutta probabilità, era stata la scuola elementare di mia nonna. La sua meraviglia, che credevo stesse per esitare in una serie di curiosi interrogativi, svanì quasi subito. Matilde si lasciò andare, o meglio, lasciò che il suo corpo si riposasse un pò, seduta a terra con la schiena contro la parete. Io feci lo stesso. Lei sembrava pensare ad altro. Avevo parlato molto poco fino a quel momento, e non le avevo mai rivolto domande, ma mi venne naturale chiederle cosa avesse. Come in un lungo flusso di coscienza, guardandomi sempre fisso negli occhi, iniziò così ad aprirsi a me. Qualche anno prima, in una festa in casa, aveva conosciuto una ragazza. Questa ragazza, di origini forse austriache forse tedesche era lì per caso. Appena rientrata da un mese in Siria e aveva iniziato a raccontarle dei suoi viaggi in Somalia, in India, in Pakistan, nel Medio-oriente falcidiato dalle guerre, tutti viaggi fatti da sola, mossa dal volontariato ma anche della curiosità personale. Avevano parlato per ore ed erano diventate amiche. Amiche a tal punto da pianificare un mese insieme, in una scuola elementare in Kosovo. Ma a quel punto la sua famiglia e soprattutto il suo ragazzo si erano imposti su di lei, sulla sua scelta, ed erano stati inflessibili. Matilde per la delusione da allora non aveva più scritto alla ragazza.
10.
Sentivo il suo sguardo su di me mentre calpestavo le macerie e col mio lungo cappotto vagavo a testa alta tra l'abside e l'altare. Usciti dalla scuola avevamo camminato per altri 5 minuti e dopo poco la facciata di una chiesa si era parata dinnanzi a noi. Una facciata atipica, decadente e decaduta, deturpata da muri di mattoni a sbarrare portone e rosone. Il muro in mattoni però presentava una breccia. Affacciandomi a quella breccia, oltre il mattone e il legno, qualcosa che per niente al mondo mi sarei perso. Non senza fatica aiutai Matilde a salirci, saltai giù dopo di lei e ci trovammo di nuovo soli, e subito al cospetto di un qualcosa che mai avevo visto prima. Se ci pensate è abbastanza atipico vedere una chiesa in rovina. Le chiese sono da sempre come capsule del tempo, le navicelle che tutto hanno conservato al loro interno. Con l'unica minaccia dei continui restauri hanno resistito agli invasori e agli incendi, e dove non ce l'hanno fatta sono state prontamente ricostruite. Le chiese sono invincibili al tempo. Tutto quello che vedreste brillare in una chiesa barocca, gli stucchi sfarzosi e i soffitti a cassettoni, nella chiesa di Romagnano tutto era usurato dal tempo. I legni del soffitto mostravano segni di sofferenza, di erosione, come carogne in decomposizione di cui si vedono gli organi interni. Un tappeto di macerie nascondeva il pavimento. L'unica navata era attorniata da volte. La luce filtrava timida da sopra le volte, dove un tempo erano le vetrate, ed illuminava gli spazi come il primo sole in una landa desolata agli albori della vita sulla terra. Le edicolette una volta erano riccamente decorate. Sempre sulle nostre teste era sospeso anche il balconcino, che dovrebbe chiamarsi ambone, dove il celebrante saliva a leggere i testi sacri. Un colore come di muffa ricopriva ogni cosa,gli affreschi che si erano conservati meglio erano collocati in alto, dove terminavano le finte colonne delle edicole, ma anche di questi si riusciva solo a stento a coglierne la bellezza. Dell'organo nessuna traccia, ricordo di aver visto qualche stemma araldico. Ogni quadro o statua di santo era stata strappata dalla sua edicola votiva anni fa dagli abitanti che volevano portare i propri numi con se. Poco c'era ancora a testimoniare la spiritualità religiosa che aveva albergato in quel luogo. Quello che mi (ma sono sicuro anche a Matilde) ci teneva immobili era un altro tipo di spiritualità, una spiritualità che non saprei ben spiegarvi. Durante tutto quel tempo passato nella chiesa, sarà stata forse mezz'ora o forse meno, chi può dirlo, nessuno di noi due proferì parola. La visione dell'abside dalla navata centrale era forse la cosa più suggestiva e ricordo che Matilde rimase quasi tutto il tempo ferma in quella visione, mentre io continuavo a passeggiare tra le macerie.