Fantasmi

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«Hai davvero creduto che potessi essere innamorato di te. Di un'insulsa ragazzina! Piccola Trisha, ho preso quello che volevo, adesso non sei più utile.»
«Austin, ti amo.»
La sua risata riecheggia nella mia testa, sempre più forte. Mi porto le mani sulle orecchie per non essere costretta a udirla. Lui si avvicina per spostarle, ridendo sempre più. Mi dimeno, ma lui continua a strattonare le mie braccia, «Non vali nulla, Trisha».

Sobbalza, la fronte è madida di sudore e il corpo è scosso da tanti brividi. Era solo un incubo. Continua a ripeterselo nella sua mente, consapevole, però, che è il riflesso della realtà.

Le immagini della sera precedente si palesano davanti ai suoi occhi stanchi, iniettate come un veleno letale, attecchiscono sotto pelle, si annidano nel labirinto della mente.

Colma di graffi.

Con l'anima fustigata da colui a cui aveva affidato ogni pezzo della sua esistenza, come fossero tasselli di un puzzle da ricomporre.

Austin aveva sgretolato ogni sua resistenza. Si era insinuato nei suoi pensieri con la foga di un uragano impetuoso, la cui furia devastatrice aveva lasciato, in ricordo, una scia di distruzione.

Aveva marchiato la pelle di Trisha con il calore delle sue mani, plasmando, con cura meticolosa, ogni cellula del corpo che era divenuta, ormai, dipendente da lui. Austin profumava di vita.

Trascorre l'intera giornata nella stessa posizione, seduta a bordo letto con le mani che stringono le lenzuola e gli occhi che scrutano lo scempio compiuto prima di addormentarsi. Niente riesce a smuoverla dallo stato catatonico in cui è piombata, né il persistente sproloquio di sua madre di là dalla porta né il continuo supplicare di Annie per indurla ad aprire e farla entrare.

Trisha spera, invano, che arrivi Austin, crede che non l'abbia vista e, quindi, il ragazzo dovrebbe fingere che nulla sia successo.

Ode, sul tardi pomeriggio, il rombo della sua auto e, come un automa, avanza sino ad arrivare alla finestra. Austin scende dall'auto con Caroline per, poi, perdersi tra le sue braccia.

Il comportamento di Austin la induce a realizzare, benché lui non l'abbia vista, la noncuranza nei suoi riguardi. Non contano nulla, per lui, i sentimenti di Trisha.

Torna a letto e, rannicchiata su se stessa, resta sveglia sino a notte fonda.

Per un'intera settimana, le giornate si susseguono identiche e di Austin nessuna traccia. Esce presto la mattina per rincasare quando sta per albeggiare. Lei osserva ogni cosa, nascosta dietro lo spesso tendaggio di camera sua e trascorre interi giorni a sfuggire alle domande preoccupate della madre, allertata dal suo aspetto e dalla mancanza di appetito.

Arriva il giorno della premiazione del progetto di chimica, lei raggiunge la palestra, allestita per la cerimonia, prima di tutti gli altri studenti.

Resta, per minuti interminabili, seduta sugli spalti, con lo sguardo fisso nel vuoto, rivive gli ultimi istanti trascorsi in quel luogo: il prom. Riflette su come sarebbe la sua vita se non avesse scelto Austin, un pensiero che scarta subito poiché Luke non poteva essere un ripiego. Asciuga le lacrime che bagnano il viso e inclina la testa quando percepisce una presenza al suo fianco.

«Ciao, Trisha. Come stai? Ho saputo di Austin e ...»

«Perché non mi hai mai chiamata?»

«Ryan mi ha chiesto di restarne fuori. Mi spiace, Trisha. Sono stata una pessima amica», la voce di Bryanna è rotta dai sensi di colpa, non si guardano vinte dalle recriminazioni e dai rimpianti.

Trisha muove la testa per annuire, le pupille sono altrove, come ogni cellula del corpo, «Se vuoi scusarmi, devo andare in bagno».

Si allontana da Bryanna per rifugiarsi nel bagno delle ragazze del primo e secondo anno, ubicato al terzo piano dell'edificio, con la speranza di restare sola.

Anche questo suo desiderio non è esaudito, mentre è seduta sul ripiano di marmo con le spalle rivolte allo specchio, una figura esile si pone al suo fianco. «Ciao, Trisha. Da quanto tempo non ci vediamo!»

«Non per causa mia!»

«Colpa delle tue scelte sbagliate, tesoro.»

«Che cosa vuoi, Rose? Gongolare, inferire, evidenziare di aver avuto ragione? Hai ragione, contenta? Questo non ti rende un'amica migliore», Trisha si dà uno slancio e scende dal ripiano, la osserva un'ultima volta, con rammarico, e si allontana da lei, senza aspettare che le risponda.

Rientra in palestra e la trova gremita di studenti e genitori, vede finanche la madre, ma il suo sguardo è lui che brama di incrociare.

Lo scorge sugli spalti superiori, la sua mano è ancorata a quella di Caroline e accanto a lui ci sono Ryan e Bryanna.

I loro occhi si scontrano, il tempo di un battito di ciglia prima che lui torni a fissare, sorridendo, la sua ragazza.

«Continuo a chiedermi il motivo?» la voce di Luke, che l'ha appena raggiunta alle spalle, la desta dal torpore e dallo svilimento in cui affoga.

«Quale motivo?»

«Il motivo per cui quell'essere ti ha illuso inutilmente. Eravamo una bella coppia, hai voluto rovinare tutto per una chimera.»

Luke avvicina la mano al volto di Trisha per donarle una carezza rude, senza il minimo accenno di compassione, «Avevano ragione Austin e compagnia bella, sei una nullità! Avevi me che baciavo il terreno su cui camminavi, hai preferito lui che ti ha sempre umiliata».

La signora Brown, l'insegnante di chimica, ci chiama sul palco, allestito sotto il canestro per l'occasione, e Luke oltrepassa Trisha per avvicinarsi alla donna, mentre lei annuisce al ricordo delle sue parole: è una nullità. Appena si volta per raggiungerlo, Trisha nota lo sguardo di Austin fisso su Luke.

Il giocatore di basket è il primo a raggiungere la commissione per ottenere il riconoscimento ed esporre, poi, davanti ai loro compagni di scuola, parte della relazione, accuratamente preparata da entrambi.

La ragazza non si stupisce della sicurezza che ostenta davanti al microfono, emana lo stesso carisma di un incantatore della massa.

Luke completa la sua parte del discorso, si gode gli applausi dei compagni e si volta nella direzione di Trisha per incoraggiarla a salire.

«Complimenti, signorina Hall. Questo è il suo attestato di merito. Adesso, può avvicinarsi al microfono per completare l'esposizione della relazione già iniziata dal suo collega.»

«G... grazie» sono le uniche parole, balbettate, che lei rivolge all'impettito presidente della commissione, un uomo sulla cinquantina che indossa un paio di occhiali enormi per il suo scarnito viso.

A passo lento, raggiunge il microfono e commette l'errore di guardare i compagni di scuola. Li vede tutti: quelli che l'hanno sempre derisa poiché i suoi abiti non erano firmati e il make-up non era perfetto, quelli che non l'hanno mai invitata alle loro feste perché lei non avrebbe mai potuto darle, le sue amiche che avrebbero dovuto appoggiare le scelte fatte e sostenerla quando era lì per cadere, poi vede lui per cui non è mai stata abbastanza.

La sua bocca è sigillata dalla delusione e un lieve brusio, accompagnato da qualche risata stridula, si leva dagli spalti.

Indietreggia con l'illusione di vederli scomparire. E, quando giunge accanto alla porta, la spalanca bruscamente per, poi, dar vita alla sua folle corsa.

Scappa, nonostante i richiami alle sue spalle, in direzione della spiaggia. Trentamila iarde che percorre velocemente, con le immagini degli ultimi anni che scorrono davanti ai suoi occhi appannati, riuscendo a percepire, a malapena, l'auto che la sta tallonando.

Arriva alla spiaggia affaticata, poggia le ginocchia sulla sabbia calda e vi lascia sprofondare lentamente il suo corpo stanco.

«Perché sei scappata?»

Una voce roca, alle spalle, la induce a voltarsi di scatto. Una voce che non riesce a ricordare, nonostante la familiarità. Asciuga gli occhi per osservare la figura accanto a sé, che diventa sempre più nitida. Il viso è invecchiato e spento, i capelli ingrigiti dal passare del tempo, ma è sufficiente guardarlo meglio per riconoscere l'uomo che la tiene in braccio nella foto.

«P... papà!»

Quel che resta di noiDove le storie prendono vita. Scoprilo ora