5.

364 47 20
                                    


Lo guardava sempre.

Ovunque andasse, Philippe si portava addosso quegli occhi. Fin da subito gli avevano ricordato i lupi dei Pirenei, quando in primavera li vedeva scendere e salire in mezzo alle rocce. Poi, una notte, mentre sonnecchiava sulla parte inferiore del letto a castello con i piedi del compagno quasi in faccia, aveva ricordato la bestia del Gévaudan della leggenda, e da quel momento per lui erano stati gli occhi di una belva.

Per una volta ancora si era sentito una pecora – in fondo stava dentro un recinto di filo spinato – e attendeva il giorno in cui il lupo l'avrebbe preso.

Era nel Campo da quattro mesi e aveva imparato quali fossero i suoni che sostituivano il suo nome, numeri d'inchiostro sull'avambraccio sinistro:

fünf fünf sechs neun vier

ripetuti ogni volta che gli si chiedeva di fare qualcosa. Lavorava con gli occhi bassi, reiterando che si chiamava Philippe Lefebvre, aveva ventitré anni, veniva da Foix e aveva un buon orecchio per le lingue. Parlava un po' di spagnolo e un po' di italiano: dopo la cattura anche un po' di tedesco, soprattutto quando qualcuno gli mostrava il gesto a seguito della parola o i francesi, che erano nel Campo da più tempo, gli insegnavano qualche astuzia linguistica.

Quella mattina, accadeva da mesi, la belva fissò il petto di 55694, che scavava la terra dura di Schirmeck. Contemplava dove, sulla casacca di treliccio, c'era il triangolo rosa con la lettera F al suo interno. L'ufficiale era alto e bello come dovevano essere gli ariani tedeschi. Il biancore del viso contrastava con la giacca, la cravatta e i pantaloni grigioverdi. Aveva una voce autoritaria e non sorrideva mai. Di lui, i polacchi dicevano che avesse ucciso alcuni prigionieri a bastonate; altri giuravano che i cani gli obbedivano e a un suo gesto sbranavano chiunque.

Non mi stupisce, pensava Philippe, è un capobranco. Scavava nell'aria che scendeva dalle montagne alsaziane, un vento che continuava a portare l'inverno nonostante fosse primavera, quando udì il suono famigliare.

«Fünf fünf sechs neun vier! Komm her(1)

Philippe riconobbe il comando, lasciò la pala infissa nel mucchio e si avvicinò a passo svelto. Quattro mesi di zuppe liquide, di pane nero dal sapore discutibile, e un episodio di dissenteria non avevano minato fino in fondo il suo fisico. Aveva cominciato a dimagrire, sotto la pelle si contavano i rigonfiamenti ossei delle costole, ma non era uno scheletro. Il viso con la testa rasata aveva mantenuto l'avvenenza. Si mise davanti all'ufficiale con le spalle curve.

La SS lo sovrastava con tutta la testa. «Folge mir(2).» Si voltò e camminò, con il passo marziale, in direzione delle baracche con i tetti a punta, e il prigioniero lo seguì. Philippe non poteva dire di aver smesso di avere paura. Tremava a ogni passo e sentiva il vuoto fastidioso allo stomaco dovuto a un'emozione. Si girò e vide che nessuno dei compagni lo accompagnava con lo sguardo, non avrebbero potuto con la guardia che li controllava. Deglutì. Spesso chi veniva portato al di là delle baracche, nell'area chiamata Interessengebiet(3), dove sorgeva una muraglia di alberi, non tornava più. Nessuno li cercava, ognuno era impegnato a sopravvivere e non aveva forze da sprecare per ricordare i morti.

In fondo nel Campo vigeva la legge Nacht und Nebel(4).

La SS si volse per controllare se il prigioniero lo seguiva.

I due percorsero la strada sterrata che passava fra le baracche 9 e 5, usurata dai piedi e dalle ruote delle carriole, e Philippe iniziò a temere. Gli veniva da vomitare e non poteva permettersi di perdere il pranzo.

L'ufficiale lo condusse al magazzino, che era una catapecchia di fianco a una torre di guardia. Prima di entrare, guardò in alto e fece il saluto militare. Il cane che vigilava l'ingresso cominciò ad abbaiare verso Philippe con la sua fila di denti aguzzi e bavosi, ma la SS gli gridò qualcosa che fu in grado di zittirlo e di far sussultare chiunque nei dintorni, persino la sentinella sulla torre. Il cane uggiolò e si sedette nella polvere con il muso sulle zampe.

La SS aprì la porta e si mise di traverso per lasciar sfilare Philippe. Il prigioniero entrò nell'oscurità umida di fanghiglia e muschio e vide gli scaffali con le provviste, i sacchi accatastati contro le pareti, scatole chiuse, mucchi di scatole che il suo stomaco riconobbe come scrigni di cibo. La bocca si riempì di saliva e lui non riuscì a frenare lo slancio del corpo in avanti.

La SS allungò il braccio in una sbarra e frenò il prigioniero.

Philippe tornò in sé, terrorizzato. Ora avrebbe ricevuto la punizione per un gesto fuori luogo. Alzò lo sguardo sull'ufficiale, che lo fissava con gli occhi screziati di verde, lucidi. Abbassò la testa.

La SS parlò in tedesco, Philippe non capì.

«Fermati lì» gli ripeté la SS in francese.

Philippe risollevò la testa.

Il soldato era andato avanti verso uno scaffale, aprì e frugò in una scatola e ne trasse due salsicce. Tornò dal ragazzo e gliele porse. «Tu non dici e io non dico» disse in francese. «Altrimenti ti devo uccidere.»

Philippe spostava lo sguardo dalla carne alla SS.

«Tu non sei ebreo, puoi mangiare carne di maiale. Nascondi nei calzoni.»

Philippe pensò di essersi preso un'insolazione. La SS dovette ficcargli le salsicce fra le mani e le resse fra le sue. Il prigioniero sentì la consistenza fredda dei guanti di pelle.

«Perché?»

«Non c'è perché.»

Ma la SS aveva sollevato la mano sinistra e senza indugiare gli accarezzò la guancia.


.................................................................

(1) Vieni qui!


(2) Seguimi.


(3) Terreno all'esterno del Campo amministrato dal Comandante.


(4) Notte e Nebbia. Decreto emanato da Hitler con lo scopo di eliminare chiunque venisse considerato "un soggetto pericoloso per il Reich."

55694Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora