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Quattro mesi. Erano passati nel modo rapido in cui passano gli stormi.

A febbraio aveva nevicato. A marzo era iniziata una siccità inconsueta. S'alternavano giorni di sole e cieli disabitati a settimane in cui dimoravano le nuvole; i prigionieri guardavano in alto e quelli che mantenevano un frammento di anima speravano in avvisaglie che non si concretizzavano.

Philippe non era fra loro, non sperava e non spasimava. Si sentiva come il clima. Le ferite si erano calmate nei primi giorni di febbraio; l'ultima emorragia fiacca era scesa nell'ultimo giorno di neve, poi il suo corpo e la sua volontà si erano seccati. Il momento più alto di lietezza l'aveva scosso quando aveva lasciato l'infermeria, giudicato in buona salute per tornare al lavoro. Mai gli era sembrata una buona notizia la ripresa degli appelli, delle corse insensate, delle operazioni di scavo.

Dopo che 55694 era stato dimesso, l'infermiere aveva dovuto affrontare un'epidemia che aveva riempito la baracca 8. I primi febbricitanti erano entrati quando il ragazzo ne usciva.

Per tutto marzo, Philippe, che il nuovo Kapo aveva destinato all'orto, non aveva fatto altro che piantare semi e infiggere bastoni per rampicanti, conscio sul margine della mente che era inutile. La terra della valle pareva aver condotto lontano i succhi grassi e buoni dei pascoli, gettando sul Campo la maledizione della sterilità.

Come se non fosse sufficiente, 55694 vedeva le processioni dei morti avvolti in lenzuola di tela uscire dal cancello sul retro. I cadaveri venivano messi su un camion guidato da un ufficiale delle SS, di rango inferiore a Jüttner e Linnemann, con la maschera antigas, e condotti a Natzweiler-Struthof per essere trasformati in cenere.

Ora, maggio era un tripudio di natura colorata e ronzante in un vento che asciugava una terra rotta. C'era una forza segreta nella natura, Philippe lo percepiva, la stessa che impediva a lui di lasciarsi morire. Coprendo con le mani il buco in cui aveva deposto semi di zucca, rivisse lo stupro come una cosa lontana da sé. Non l'aveva segnato nel modo in cui si attendeva, non c'erano incubi pari alle scene dei film del cinematografo. Se scavava nella memoria, ricordava che alcuni suoi amanti erano stati rudi, e in due occasioni aveva accettato del denaro per risarcimento.

La scena che tornava di continuo, quando giaceva nella camerata con gli occhi spalancati e cicale precoci che frinivano una canzone insistita, era stata l'esecuzione. Un uomo che l'aveva toccato in modo rispettoso, che l'aveva amato con serietà, che non badava agli odori e alla magrezza, una bestia mansueta rinchiusa nel magazzino delle provviste che gli parlava della vita ordinaria, quell'uomo aveva condannato e ucciso sette internati nel tempo che il crepuscolo aveva impiegato a spegnersi nella notte. Nemmeno venti minuti. Le parole sgorgavano dense: Non mi importa nulla degli altri. Era la promessa della bestia del Gévaudan.

Philippe aveva cercato l'amore assoluto, e ora che l'aveva – sapeva che non esisteva niente di più assoluto di un amante che uccideva per lui, che voleva rimettere le cose a posto – lo temeva. Non capiva fino in fondo quale fosse la natura del suo cuore e del cuore di Andreas. Era giusto, sbagliato? Il Campo confondeva e rimescolava le regole del vivere civile. Se fosse successo nella società fuori da Schirmeck, lui avrebbe denunciato Andreas Jüttner alla polizia, l'avrebbe condannato alla ghigliottina. Dentro il Campo, invece, l'essere che era diventato aveva provato sollievo nell'assistere all'eliminazione di uomini che gli avevano fatto del male.

Andreas non era andato in infermeria nei giorni in cui Philippe era rimasto ricoverato, supino. Non l'aveva più chiamato nel magazzino da che era stato dimesso. Per ore, minuti, Philippe aveva pensato quello che credeva essere giusto: il suo corpo era stato marchiato da uno zingaro, insozzato da un seme malvagio e rivoltante, la sua carne non era incorrotta. Cosa se ne fa un ariano di un sollazzo che già nella sua prima incarnazione era poco meno di un uomo?

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