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Non ce l'aveva fatta.

Nonostante fossero passate sei settimane, quattro scrosci di pioggia, un altro episodio di dissenteria e cinque repliche della stessa scena nel magazzino, Philippe continuava a rimuginarci sopra. Come i suoi simili aveva reso il cibo un'ossessione, e il tormento – già difficile da contrastare e blandire – era acuito quando il Comandante Buck faceva preparare una tavola all'aperto con ogni tipo di pietanza e si sedeva coi suoi ufficiali per pranzare. Si portava dietro i cani, diversi dalle belve di guardia al Campo, affamati per giorni e resi bramosi, e li lanciava contro i prigionieri per studiare le loro reazioni.

Philippe sapeva dai compagni francesi che Buck detestava in modo particolare gli ebrei e gli omosessuali, a suo dire ingordi. Nel personale inferno del Comandante, ebrei e omosessuali dovevano essere messi alla prova, stuzzicati e provocati fino al punto in cui qualcuno di loro, di fronte al lancio degli avanzi del pranzo, si sarebbe inginocchiato o sarebbe scappato all'allineamento o avrebbe teso una mano. Allora Buck avrebbe dato ordine di slegare la decina di cani che si portava appresso e si sarebbe goduto lo spettacolo di bestie contro bestie che lottavano per un osso. Avrebbe visto la debolezza che i grandi scienziati nazisti ritrovavano nei cervelli dei cadaveri durante le autopsie e che confermava le riflessioni di Lombroso e Darwin.

Buck non scendeva spesso al Campo. Aveva una residenza nella città vicina e viaggiava all'interno del Grande Reich Tedesco coi suoi collaboratori per riferire l'andamento dei metodi di rieducazione. Si recava all'Ufficio centrale per la Lotta contro l'Omosessualità e l'Aborto.

Le SS che amministravano i prigionieri in sua vece ne seguivano i dettami. Il solo pensare che l'ufficiale avesse perso tempo per scegliere le salsicce, faceva credere a Philippe che c'erano scatole di cibo avvelenato o marcio, contrassegnate da un simbolo ai suoi occhi irriconoscibile, ben divise dalle scorte commestibili. Le guardie erano lungimiranti, lo si capiva dall'organizzazione del Campo.

E io non ho il fiuto dei gatti per capire se il cibo è guasto né un assaggiatore come lo ha il Comandante. In fondo questo è un luogo di correzione, rifletté Philippe mentre livellava del ciottolato per coprire la buca dove sarebbe sorto un nuovo edificio in mattoni. Vogliono insegnarci a essere morigerati, a soffrire per pulirci. Per loro non sono altro che un maiale che si rivolta con altri maiali nel nostro fango bianco. Voleva vedere fin dove mi sarei spinto.

Philippe si guardò il triangolo rosa sul petto, cercò di scacciare l'immagine che la parola salsiccia gli aveva restituito, ma non riuscì ad allontanare l'odore di stagionatura e il sentore dell'unto sulle dita e nei calzoni le sere in cui si sbarazzava del cibo. Ripercorreva i suoi passi nell'oscurità, il sentiero battuto dove il vento mescolava la terra, per il dovere di vuotare i secchi con gli escrementi suoi e dei compagni di camerata. Dopo aver versato il contenuto del secchio sul mucchio friabile che aveva ucciso un largo tratto di fioriture, toglieva le salsicce dalla cintola – doveva annullarne l'odore con le proprie feci – e le gettava oltre la recinzione e il filo spinato. Rammentava il rumore, il colpo fesso sul terreno secco, e ogni volta per poco non impazziva. Tornando nella baracca doveva figurarsi i lupi che sbranavano la carne e si sentiva sollevato al pensiero che il cibo non esistesse più per essere recuperato. E siccome molti dei suoi amanti gli avevano detto che era orgoglioso, percepiva di aver sconfitto l'istinto ed era fiero di sé. Ma nei momenti di bisogno continuava a spasimare il suo spreco.

Adesso il caldo si era fatto più vigoroso, una primavera inoltrata. Il sole inaridiva l'aria del pomeriggio e indeboliva i prigionieri.

Almeno la fame è meno intensa. Philippe cercò con lo sguardo la bestia del Gévaudan e vide la SS nella sua posa con le mani guantate allacciate dietro la schiena.

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