Capitolo 3 - M.A.R.I.A.

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Il successo è arrivato piano. Quasi senza farsi scoprire.
Dapprima siamo diventate il ristorantino in cui tutti volevano cenare. Poi quello in cui era difficile trovare posto.
Lentamente abbiamo cominciato a cambiare i tavoli, abbiamo comprato piccole sedie imbottite, scelto vasi di cristallo pieni di fiori freschi di prima mano.
Abbiamo assunto camerieri, diretti magistralmente dalla mia amica Cecilia che, nonostante il successo, non ha mai smesso di far luccicare le sue iridi azzurre all'inizio di ogni servizio.
È rimasta la ragazza conosciuta quando lavavo i piatti. Sempre con il sorriso, sempre con l'entusiasmo ben sedimentato negli occhi.
Abbiamo assunto aiuto cuochi e lavapiatti.
Tutti che mi chiamano chef, che mi osservano con un rispetto reverenziale, pronti a pendere dalle mie labbra.

E io, beh, io mi sento sempre la ragazzina eccitata nascosta nella cucina della nonna.
Solo che adesso sono nascosta in un regno di acciaio che conterà circa cinquanta mila euro di sacrifici e rinunce, piena dei macchinari più disparati se.
Abbattitori, impastatrici, roner, forni a vapore, planetarie e pentole delle forme più bizzarre si contendono lo spazio del mio rifugio nascosto nel cuore pulsante della città eterna, in cui continua a sprigionarsi l'odore del ragù che tanti anni fa mi ha fatto capire dove volevo andare.
E che mi ci ha fatta arrivare.

La cucina del M.A.R.I.A. è diventata la mia casa.
Sì, ho chiamato il locale con il nome di mia nonna. Banale?
Forse si.
Ma lei, in fin dei conti, mi ha salvata.
Così come, paradossalmente, mi ha salvata la sua malattia, facendomi mandare all'aria una vita che non mi apparteneva.
Non parlo più con mio padre da allora.
Da quando, nello sfarzo inutile del nostro salotto sul lungotevere della Vittoria, gli ho urlato in faccia che non avrei fatto la sua vita.
Che avrei seguito quella passione nata per caso, e che di lei avrei fatto un lavoro.
Mi ricordo ancora quando ho visto le sue labbra incurvarsi in un sorriso saturo di presunta onniscienza.
Quando mi ha sputato addosso la sua realtà, quella che mi vedeva a combattere con uno stipendio che non mi avrebbe permesso di acquistare neppure una macchina di terza mano.
Quella che mi intimava di andarmene e di non farmi vedere mai più.
E così è stato.
Non lo vedo da allora.
Ogni tanto leggo sui giornali di qualche causa milionaria vinta dal suo studio. Di qualche miracolo di giurisprudenza compiuto dalle sue mani.
E sorrido.
Perché io avrò pure una Twingo scassata parcheggiata perennemente in divieto di sosta, avrò anche una piccola casa in periferia di cui ricordo a malapena la strada per arrivare in bagno, passando tutto il mio tempo chiusa qui dentro, avrò pure una vita in cui continuo a dormire tre ore per notte.
I capelli sempre in disordine. I piedi doloranti. Le braccia disegnate da non so più quante ustioni.
Ma sono felice. E questo lui non potrà mai capirlo.
Nè tanto meno assaporarlo.
La felicità per le cose semplici. Per il sorriso di Cecilia a fine servizio. Per le recensioni positive su TripAdvisor. Per il semplice fatto di mischiare gli ingredienti e trasformali in un capolavoro.

Di colpo il suono di alcuni passi veloci mi raggiunge, superando il vapore del bollitore in cui sto tentando di dar vita ad un nuovo tipo di cottura della pasta.
I capelli biondi di Cecilia fanno capolino oltre lo stipite della porta.

-    «Mi ha chiamato Marco...»

Me lo dice ansimando.
E io non capisco.
Marco è il suo fidanzato da che ricordo.
Probabilmente il ragazzo più tranquillo, sonnolento e pacioso del mondo.
Mai una frase cattiva, mai una parola sbagliata. Un ragazzo perfetto, insomma, forse persino troppo perfetto.

-    «E la cosa dovrebbe farmi sussultare perché...»

Provo a tirarle fuori dalle labbra qualcosa che secondo lei dovrei intuire.
La osservo impotente mentre comincia a saltellare. A girare sul posto come un cane intento a dare la caccia alla propria coda.

-    «Cecilia, vuoi darmi un qualsiasi genere di spiegazione...?»

Lei si ferma di colpo. Mi guarda per un momento che sembra durare ore.
Poi mi si avventa contro.
Mi slaccia il grembiule con foga.
Comincia a liberare uno ad uno i bottoni della casacca. Sempre con quello sguardo da invasata negli occhi. Sempre con un sorriso mal nascosto dipinto sulle labbra.

-    «Ti sei innamorata di me o c'è qualcos'altro che dovrei sapere?»

Lo chiedo ridendo.
Lei si paralizza. Si allontana. Mi guarda ancora.
Con quei suoi occhi azzurri che raccontano tutte le storie del mondo.

-    «Togliti questa roba di dosso, vestiti e corri in edicola. Questa cosa devi vederla da sola!»

Me lo dice trattenendo una risata. Si porta i capelli dietro all'orecchio. Abbassa lo sguardo sul pavimento.
E a me sembra di non capire.
Poi di colpo il mio cuore perde un battito.
Io so che giorno è oggi! Oggi è il diciassette novembre. Oggi è il giorno in cui esce la mia bibbia!

Finisco velocemente di sbottonarmi la casacca. La appallottolo malamente su uno dei pochi piani di acciaio scampati alle mie prove visionarie.
Inforco rapidamente la giacca nel guardaroba all'ingresso ed esco correndo nelle strade di Roma.

Via del Seminario sfila sotto i miei piedi con la velocità che potrei vedere da un treno in corsa.
Raggiungo l'incrocio con via della Minerva, la percorro fino a piazza di Santa Chiara, dove l'immortalità del Pantheon mi ammicca tra le prime luci del tramonto.
Non mi concedo di pensare. Perché se pensassi comincerei a sperare. E se sperassi potrebbe spezzarmisi il cuore.
Vedo l'edicola nascosta nell'angolo tra la piazza e via della Rotonda.
Faccio irruzione al suo interno come farebbe un uragano.

Vittorio, il proprietario, un tipo dall'aria rude, con una lunga barba nera e senza più un centimetro di pelle libero da tatuaggi, mi saluta con un gesto frettoloso della mano.
Mi sorride.

-    «Ciò ggià a copia tua qui, pronta pe' te.»

Gli sorrido, tra il respiro affannato e le prime gocce di sudore.
La copertina rossa, lucida e patinata mi ammicca immobile dal ripiano della cassa.
Mi rendo conto di non aver preso la borsa e di non avere con me un solo euro.
Mi maledico mentalmente. Impreco in silenzio. Poi mi volto, faccio per uscire.

-    «Torno tra un attimo Vittorio... non ho una lira dietro!»

Lui risponde al mio sorriso.

-    «Lassa perde nì, mii porti domani. Mo leggi, che artrimenti te viè n'infarto!»

Mi porge il piccolo fascicolo perfettamente rilegato. Profuma di carta stampata e di sogni.
Le mani mi tremano per un'istante. Faccio un lungo respiro. Accarezzo le lettere bianche con le dita.
La guida Michelin
Apro piano la prima pagina.
Uno scricchiolio irrompe tra i rumori di una città che si prepara a salutare il giorno.
Raggiungo l'indice. Cerco la sezione del Lazio. La trovo.
Seguo diligentemente le istruzioni, sfogliando le pagine con movimenti che sembrano sincopati.
Trovo il capitolo su Roma. Seguo l'ordine alfabetico.
I grandi ristoranti sfilano uno ad uno sotto il mio sguardo.
Il talento di molti, il genio di pochi.
Cerco la "M". Trovo anche lei.
Ancora una pagina.
Smetto di respirare. Chiudo la guida di scatto.

-    «Cheddice, ni? Sto giro te c'hanno messo sopra sta guida?»

Vittorio mi guarda.
Mi sorride, protetto dai dispencer di caramelle pieni di colori sgargianti e dalle buste di figurine.
Sento le gambe tremare.
Lo guardo negli occhi, mentre una lacrima scende ad inumidirmi una guancia.

-    «Sì...»

Cronache di un sogno dalle ali piccoleDove le storie prendono vita. Scoprilo ora