Capitolo 4 (E)

37.7K 1.2K 79
                                    

Evander

Oops! Questa immagine non segue le nostre linee guida sui contenuti. Per continuare la pubblicazione, provare a rimuoverlo o caricare un altro.

Evander

«Buongiorno, professor King.» Sussultai leggermente e, non appena mi girai verso i banchi, vidi Allison intenta a disegnare, proprio come l'avevo trovata il giorno prima. I suoi capelli color cioccolato cadevano a boccoli grandi sulle sue spalle, i suoi occhi azzurri erano vispi e svegli; indossava una camicetta bianca che risaltava poco le curve del suo busto e lasciava scoperto il collo grazie a una leggera scollatura, ma non potevo dire altrettanto delle sue gambe, fasciate da dei leggins neri; ai piedi portava dei tacchi bassi e bordeaux. Il suo collo, i suoi lobi e il suo polso erano ornati da accessori dorati, che risplendevano sotto la luce della modesta illuminazione della classe. Era semplice e bellissima. Le guardai nuovamente il collo e notai... una cicatrice. Sembrava molto vecchia.

«Cos'ha fatto al collo, signorina Trice?» le chiesi, fregandomene del bon ton. Non appena la vidi toccarsi il punto esatto in cui giaceva la cicatrice scosse la testa lentamente e mi guardò negli occhi.
«Non ricordo nemmeno io, mi hanno detto che è la conseguenza di un incidente. Nnon... n... on ricordo nulla di quel giorno...» ammise, prima di riportare lo sguardo in basso, come se la cosa la turbasse in una maniera insopportabile. Lei non ricordava nulla di quel giorno... Lei...
«Non ricorda nulla, nemmeno chi la accompagnava?»
«No, nulla, nemmeno ciò che è successo prima dell'incidente.» A quelle parole rimasi sconvolto. Aveva dimenticato tutto... Continuai a fissarla, impietrito, prima di sentire l'arrivo di uno studente: alto, spalle larghe e robuste, biondo con occhi verdi e un sorriso da cascamorto. Playmaker della squadra di Basket. Jackson O'Connel? Sì, lui, il Playmaker.
«Buongiorno Allison! Professor King!» Lo guardai afferrare una sedia e sedersi di fianco ad Allison, circondarle le spalle con un braccio e avvicinarla per baciarle la guancia. A quel punto pensai tutti i modi per torturarlo. "Lei è mia!"
«Come sta, Prof. King?»
"Toglile quelle zampacce di dosso, essere pezzente che non sei altro."
«Bene» risposi e lo trucidai con lo sguardo. Non appena si accorse del fatto che il suo braccio era ancora attorno alle spalle di Allison, si allontanò imbarazzato, passandosi la mani tra i capelli.
"Bravo, e non toccarla mai più. Potrei prendere in considerazione di ucciderti. Hai presente Vlad L'impalatore? Ecco, sta attento!"
«Professore... noi ci eravamo già incontrati prima?» mi domandò lei, guardandomi con aria confusa. Mi ritrovai a scegliere due strade: dirle tutto, davanti al Playmaker, oppure tacere e dimenticarla, lasciandola tra le braccia del pezzente. Sospirai e scossi la testa.
«No, signorina Trice. Mai.»
«Oh, mi scusi, aveva l'aria familiare. Mi scusi ancora» la guardai scuotere la testa, facendo muovere i capelli lentamente, e dipingersi sul volto un sorriso appena accennato.
«Tranquilla, può capitare...» "Non significa che ti lascerò andare." Mi sedetti alla cattedra a tirai fuori il cellulare. Un Samsung Galaxy S5, su cui avevo spostato tutte le vecchie foto con Allison dal mio Samsung U700, comprato nel 2007. Era strano come la galleria fosse dedicata solo a lei e a lei solamente, se non per alcune foto di mia madre, di mia sorella, e del mio cane Hugo, perito qualche anno fa di vecchiaia.
C'erano foto di lei, vestita con un abito corto estivo, seduta su uno scoglio con il sorriso. In un'altra foto c'era lei che, seduta davanti alla macchina da cucire, creava abiti improponibili, segno che non sarebbe mai diventata una stilista. In un'altra c'eravamo io e lei insieme, abbracciati, sorridenti e felici. Premetti sulle foto con il pollice per la multiselezione per cancellarle tutte, ma non ci riuscii. La amavo ancora. Spensi il cellulare, portando così la mia attenzione verso la classe che nel frattempo era già piena come il giorno precedente se non per qualche nuovo arrivato che il primo giorno non si presenta mai.
«Tu, là in fondo, come ti chiami?» dissi, puntandolo con gli occhi. Era nuovo, non era della scuola. Sapevo che ci sarebbe stato un nuovo arrivato. Il ragazzo mi guardò, alzando lo sguardo dal libro, molto probabilmente per rimettersi in pari di una lezione, e si alzò in piedi per presentarsi. Indossava una giacca di pelle nera, jeans strappati, una maglietta aderente con su la scritta "Metallica" che risaltava i pettorali. Inutile dire che tutte le ragazze si girarono verso lui, anche perché il viso poteva esser definito bello, anche attraente: occhi grigi, capelli corvini, labbra sottili e un tatuaggio enorme che occupava tutto il suo collo. Insomma, il classico ragazzo che non sa perché si è iscritto a una facoltà. Mi ricordava me. Insomma, eccetto per i capelli che sembravano tutto tranne che tinti, e il tatuaggio troppo vistoso.
«Mi chiamo Joshua, Joshua Kraus.»
«Ok, Joshua, io sono il professor King. Sapresti dirmi qualcosa sull'Arte Gotica?»
«Oltre alle nozioni fondamentali?»
«A meno che tu non lo abbia già fatto al liceo, sì, vorrei qualcosa in più rispetto alle nozioni fondamentali.»

***

Alla fine della lezione lasciai uscire tutti tranne Joshua. Inizialmente mi guardò stranamente, poi si sedette al primo banco.
«Deve farmi una ramanzina perché ieri non sono venuto?»
«Sei adulto, non mi interessa quante assenze farai. Ho saputo che tuo padre è J. Kraus. È il proprietario dell'Hotel "Enchanté" in Francia, e io sto cercando per conto di un mio collega un hotel per uno stage lavorativo che alcuni di voi farete nel Museo del Louvre.»
«Ho capito. Vedrò ciò che posso fare. Arrivederci, professore.» Joshua si rialzò e, con il suo fare da duro, afferrò nuovamente la sua borsa e uscì dall'aula.
Quando finii di sistemare le pratiche "burocratiche" del giorno, mi recai fuori dall'istituto per andare da mia sorella Anastasia, che aveva appena ottenuto il lavoro come barista da "P-Eating", dopo essere stata licenziata dall'azienda che aveva chiuso l'attività.
Che terribile gioco di parole...
Io e mia sorella, gemella, non abbiamo molto in comune fisicamente: lei si è tinta i capelli di un biondo platino che le illumina il viso e soprattutto i suoi occhi di due colori distinti, quello a sinistra è azzurro mentre quello a destra grigio.
Alzai lo sguardo al cielo e notai delle nuvole scure, segno che a breve avrebbe piovuto. Oramai ero nel bel mezzo della strada, se avesse piovuto in quel preciso istante...
«Ti prego, almeno una volta mostrami il sole...» sussurrai tra me e l'Onnipotente. Si fa per dire, anche perché le mie preghiere vennero esaudite quando incominciò a piovere. Fantastico. Istintivamente portai i libri che avevo in mano sopra la testa e cominciai a camminare velocemente verso il bar. Quando lo raggiunsi ero completamente inzuppato e mia sorella non poté non accorgersene.
«Evander!» si allarmò lei e mi raggiunse per prendere i libri dalla mia mano per permettermi di sistemarmi.
«È davvero bello sapere che lassù qualcuno ascolta quando chiedo un po' di sole!» dissi sarcastico, ridacchiando e togliendomi la giacca. Quando voltai lo sguardo verso i tavoli vidi dei boccoli color nocciola e due occhi grandi guardarmi.
Allison era lì e aveva la bocca piena di ciò che sembrava essere una brioche al cioccolato.
Nonostante la perdita di memoria i suoi gusti erano rimasti gli stessi. Non mi accorsi che il mio sguardo su di lei si era posato per più del limite concesso prima che diventasse imbarazzante.
Ora era decisamente uno sguardo da "tu-mi-hai-fatto-qualcosa-sta-attenta!"
Quando Anastasia si avvicinò al mio orecchio per sussurrarmi: «È lei... davvero è Allison? Vuoi parlarne?», annuii e la seguii verso l'area riservata solo agli addetti. Appena fummo soli, Anastasia si gettò contro di me, abbracciandomi e stringendomi forte. Lei era più grande di me solo di un paio di minuti, ma nonostante ciò si comportava come una madre pronta a proteggermi.
«Mi dispiace così tanto, Vider.»
«Non chiamarmi così, Stisia.» Anastasia ridacchiò e mi strinse di più nel suo abbraccio. Sapeva perfettamente come mi sentivo riguardo ad Allison. Lei sapeva...
«Sai, dovresti trasferirti da me. Sono stufo di stare solo in quella casa...» le dissi all'improvviso.
«Sai benissimo che mi è impossibile. Ho una figlia e un marito a cui badare» disse lei, accarezzandomi la guancia. Sospirai e mi allontanai leggermente da lei, dopo aver notato un livido sul braccio che aveva alzato per toccarmi. «Pensavo dovessimo parlare di Allison, Evander...»
«Non voglio parlare di lei, ora. Ancora ti fai maltrattare da tuo marito? Quando ti deciderai a lasciarlo. Guarda cosa ti fa!» le afferrai il braccio e abbassai la manica, rivelando un livido più grosso di quanto sembrasse.
«Cristo, io prima o poi lo uccido...»
«Evander! Per favore!»
«Questa è violenza domestica, Anastasia!» abbassai la voce per non urlare, ma il tono di voce uscì comunque più cattivo del previsto.
«Basta così, Evander» sentenziò lei, rimettendosi a posto la manica.
«Dimmi un po', cosa è successo ad Allison? Perché non le parli? Perché non mi riconosceva? Non dirmi che sono invecchiata così tanto in sette anni...»
«Ha perso la memoria. L'ho scoperto solo oggi. Me l'ha detto quando le ho chiesto di una cicatrice che aveva sul collo risalente al giorno dell'incidente...» spiegai, passandomi entrambe le mani sui capelli. Avrei preferito seriamente continuare a parlare di Blake, suo marito e padre della mia stupenda nipotina Saphira.
«Oh cavoli, mi dispiace Evander...»
«Non sai quanto dispiace a me...»

King's Heaven Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora