𝐏𝐫𝐨𝐥𝐨𝐠𝐨

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Antico Egitto,2673 a

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Antico Egitto,
2673 a.C.

I raggi del sole cocente bruciavano sulla sua pelle dorata e delicata, tuttavia, lei non se ne lamentava. Già da quando aveva emesso il suo primo vagito aveva imparato a sopportare in silenzio sia il caldo sole che picchiava sul deserto d'Egitto sia i soprusi dei suoi padroni. Sua madre glielo ripeteva sempre: loro erano schiavi, oggetti nelle mani dei potenti e, in quanto tale, non gli era concesso lamentarsi né parlare in presenza dei nobili.

Oseide non era nulla più di un oggetto nelle mani del Faraone.

Nonostante la sua giovane età, aveva imparato ad obbedire e a sottostare ai capricci di chi era al vertice di quella grande piramide sociale, piramide sociale nel quale lei si trovava al gradino inferiore, alla base di tutto.

Lei non era niente.

Lei non era nessuno.

E questo lo aveva ben compreso da tempo, ormai.

«Il fiume Nilo non è molto lontano» disse la madre alla bambina che le somigliava così tanto. Oseide, infatti, aveva lunghi capelli neri, che quel giorno erano stati legati in una treccina arruffata e disordinata. Le piccole ciocche, che le incorniciavano il viso innocente, non facevano altro che svolazzare davanti ai suoi occhi a causa del leggero venticello che muoveva la sabbia dorata.

Oseide annuì e decise di non aprire bocca mentre, con le sue piccole manine, teneva ben saldo il grande vaso da riempire d'acqua fresca, limpida. Acqua che sarebbe servita a dissetare il Faraone Djoser e delle sue numerose mogli e concubine. Se lo avesse fatto cadere, le guardie del faraone l'avrebbero punita con le loro fruste. La bambina le guardava sempre di nascosto e, ogni volta, non poteva fare a meno di fissare il suo sguardo su quei bastoni dorati a cui erano legati delle lingue lunghe di cuoio, lingue di cuoio in grado di lacerare la sua pelle delicata.

Spostò lo sguardo e rabbrividì al solo pensiero di essere frustata un'altra volta da quegli uomini dalle divise scintillanti che, a volte, sembravano non avere un'anima. Oseide si era domandata spesso se quest'ultima l'avessero venduta al dio Anubi in cambio della loro posizione sociale.

Le guardie non erano schiavi, nonostante alcuni di loro discendessero da genitori che lo fossero. Secondo la politica dell'Egitto, se nasci da una coppia di schiavi, lo si era automaticamente, proprio come lei; ma ciò non era previsto per gli uomini nominati soldati dal Faraone in persona: il potere militare, che quest'ultimo gli conferiva, li rendeva uomini liberi e non sottomessi.

Fece un passo in avanti, un altro e un altro ancora.

Il sole picchiava forte e la sabbia sotto i suoi piedini nudi bruciava come le fiamme di un violento incendio. Ogni passo era una tortura e l'unica consolazione che la spingeva ad andare avanti nel percorso era che, presto, sarebbero giunti ai piedi del Nilo e lì avrebbe potuto rinfrescarsi un po'. Tuttavia, le sue gambe facevano fatica a reggerla in piedi. Era stanca e trasportare quel vaso di terracotta non le alleggeriva la situazione.

Si fermò e posò un istante il recipiente. Si passò una mano sulla faccia in modo da poter asciugare il sudore che le imperlava la fronte e sospirò.

Nonostante l'imponente dimora dove alloggiava il faraone Djoser e la sua corte non fosse così tanto lontana dal Nilo, a lei quella distanza sembrava infinita.

La bambina arricciò il naso al pensiero che avrebbe fatto quel percorso ogni giorno, per tutto il resto della sua vita.

Sua madre, giovane donna di bell'aspetto e dalla carnagione dorata, si voltò a guardarla. Gli occhi neri, così simili ai suoi, la fissavano severa, con aria di rimprovero. Era chiaro che non le andava bene il fatto che la piccola si fosse fermata durante il percorso.

"Uno schiavo deve sempre trovare in sé la forza di continuare ad andare avanti ed esaudire tutte le richieste dei suoi padroni. Non ci si deve mai fermare."

«Cammina, schiava» disse una guardia, spingendo la ragazzina sulla sabbia rovente.

Oseide cadde in ginocchio e riuscì ad evitare di finire con il volto su quel cumulo di granelli dorati solo premendo i palmi davanti a sé. La treccia le ricadde davanti, così come i piccoli ciuffetti neri che le incorniciavano il viso da bambola. Increspò le labbra a forma di cuore e fissò così intensamente la sabbia da desiderare che questa potesse farla sprofondare in sé, in quel preciso istante.

«Rialzati, Oseide» disse sua mamma, spronandola a riprendere il cammino al suo fianco.

La ragazzina sospirò, rassegnata al fatto che il Destino beffardo avesse scelto per lei proprio questo modo di vivere così tanto miserabile. Sì rialzò ma, nel preciso istante in cui iniziò a compiere quel movimento, sentì il vento iniziare a soffiare leggermente più forte, come se volesse darle una mano a rimettersi in piedi.

I granelli di sabbia iniziarono a volare nell'aria e gli occhi neri di Oseide sgranarono quando vide un piccolo vortice circondare un minuscolo fiore non ancora sbocciato.

I suoi delicati petali rossi erano chiusi, sigillati, e due piccole foglie, di un verde talmente acceso da sembrare due smeraldi lucenti, spiccavano fuori dalla sabbia.

Com'era possibile tutto ciò?

Era risaputo che i fiori non sbocciavano mai da un terreno sabbioso. Dunque, cosa rendeva tanto speciale quel fiorellino da iniziare a germogliare proprio lì?

Il vortice d'aria si spostò dal fiore e iniziò a vorticare intorno ad ogni parte del corpicino della piccola schiava del Faraone. Il vento e la sabbia l'accarezzavano dolcemente e le procuravano il solletico nei punti più sensibili del suo essere.

Ciò bastò a strapparle un leggero sorriso che continuò a manifestarsi sul suo viso nonostante quel gioco di magia fosse sparito, volato via. Guardò il punto in cui aveva visto poco prima il bocciolo e notò che quest'ultimo era sparito.

Che fosse stato sepolto dalla sabbia del deserto in movimento?

«Ti muovi o dobbiamo costringerti a farlo?» sbraitò infuriato l'altro dei due soldati.

«Oseide» disse la madre. «Andiamo.»

Lei guardò negli occhi la donna che l'aveva messa al mondo e l'unico gesto che fece fu quello di annuire. Afferrò nuovamente il grande vaso di terracotta e riprese il suo cammino, consapevole del fatto che quella era la sua vita e che non sarebbe mai cambiata.

Mai.

Una schiava sarebbe stata sempre una schiava.

Una schiava sarebbe stata sempre una schiava

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