Una diavoleria armonica

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E stanotte Anna ha chiamato il radio taxi e se ne è andata via, lasciando vuota la sua parte di letto. Ma non è per Anna se sto così.
Lei non c'entra.
E non c'entrano i caffè, le auto che inchiodano, o i ragazzi che sento vagabondare giù in strada.
Messi alla porta dai locali della notte, se ne vanno in giro con l'anima sbronza, a pisciare contro i muri della città.
Poi si abbracciano, ridono, piangono.
Si raccontano la vita prendendo a calci una lattina vuota.
Non è nemmeno per loro, se non riesco a dormire.
Sono i pensieri.
C'è che questa mia testa bacata, dall'una e trenta in poi, s'è messa a fare i bilanci esistenziali. A cercare il pelo nell'uovo. Ore e ore a chiedermi cosa sarebbe stato meglio dire, o fare, in questa o in quella situazione. A ricordare le cose più insignificanti.
Mia madre che diceva:
«Tesoro, svegliati che è giorno».
E io che rispondevo:
«Ancora un po' mamma», riavvolgendomi tra le lenzuola.
E poi il primo giorno di scuola, le gambe di Clara sulla bicicletta, i peli sopra il labbro. La faccia di mio padre illuminata dalla tele in salotto, mentre il primo uomo sbarcava sulla luna.
Sudo, mi agito, mi dimeno. A tratti ho la sensazione d'addormentarmi, ma subito mi risveglio, in un sobbalzo, come preso dalla vertigine di una caduta. E poi ancora sudo, mi agito, mi dimeno.
Cerco un angolo ancora fresco del cuscino spostandomi sul lato sinistro del letto, quello vuoto, che Anna prima ha chiamato il radio taxi e si è fatta venire a prendere.
D'improvviso il silenzio.
Nessuna voce, nessuna auto, nessun pensiero. Solo con me stesso, sento il cuore pompare violento contro il materasso. Mi spavento percependolo come qualcosa di estraneo da me. Un qualcosa che non sono io.
Come una cosa meccanica che, prima o poi, smetterà di funzionare.
Provo a non pensarci. Cerco in tutti i modi di lasciarmi sopraffare dal sonno, cercando di scacciare via dalla mente ogni tipo di asperità.
Mi rilasso: cerco di immaginare la lana, il cotone, un odore fresco. L'acqua che scorre.
Finalmente mi addormento.
M'addormento, e mi ritrovo nella sala di un cinema, vestito da militare.
Una delle cose che preferisco dei sogni è che ti fanno vivere cose che non hai mai vissuto, e ve lo dice uno che è stato scartato pure alla visita di leva. Una delle tante cose mai fatte.
Comunque.
Mi addormento e mi ritrovo nella sala di un cinema. Anche il mio vicino di posto è vestito da militare. Mi allunga una delle sue MS, mi indica una bionda due file più avanti, e mi chiede se ho d'accendere.
La fiamma del fiammifero che mi ritrovo per le mani si dimostra sufficiente per entrambe le sigarette. Per poco non mi scotto.
L'odore dello zolfo, intanto, si propaga lentamente per la sala. Le luci si abbassano, le seggiole scricchiolano, tutti si azzittiscono. La magia del cinema di una volta.
Parte il proiettore.


Tre, due, uno.


Un gruppo di amici discute animatamente davanti a una tavola ancora da sparecchiare. Siamo in un affollato locale di una Manhattan in bianco e nero. Si parla di arte, talento e coraggio. L'uomo con gli occhiali spessi un dito dice di sentirsi incredibilmente sexy, con la sigaretta in mano. È molto buffo.
A un certo punto del sogno mi accorgo che il protagonista del film sono io. Come se mi fossi scordato che stavo guardando una pellicola.
Insomma, di punto in bianco sono un giovane e sarcastico Woody Allen e mi ritrovo davanti ad Anna, l'altra protagonista del film. La mia Anna.
Le spiego il mio amore, attraverso occhiali spessi che non ho mai portato. Le chiedo scusa per come l'ho trattata la sera prima e le dico che è stato triste, molto triste, sentirla scendere la rampa delle scale, nel cuore della notte.
Poi altre cose strane. Il sogno finisce con me e mia sorella Clara inseguiti da un branco di cani inferociti. Ci nascondevamo nel buio dei campi di grano.
Gesù che notte.
Fortuna che al risveglio trovo il mattino ad accogliermi, con il sorriso in bocca.
Anna apre la finestra, mi sorride, fresca come i suoi vent'anni. Poi corre a spegnere il fornello, mentre la moka fa i suoi odorosi gargarismi mattutini.
Penso che sarà triste un giorno lasciarla andare via.
«Che ci fai con un vecchio come me?» le dico.
Per la radio passa un pezzo hawaiano: una roba spensierata, tutto chitarra e maracas. Con qualcosa di strano dentro, però.
Un passaggio in accordi minori forse, o qualche altra diavoleria armonica. Non so. Forse è solo questa mattina dolce e amara.
Un pezzo che, comunque, non esito a definire struggente.
Nonostante l'apparente allegria. 

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