Pronto, c'è qualcuno?

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Il temporale illuminò la città quel sabato pomeriggio, sorprendendola indaffarata nei suoi consueti peccati di plastica. Tutto fu un rincorrersi silenzioso. Borse, sacchetti, mani, passeggini, cappotti tirati sopra la testa; corse appena accennate, ombrelli aperti, richiusi, scrollati. Come povere bestiole impaurite, ci riparammo in massa sotto i portici, con i capelli gocciolanti e i polpacci bagnati. Con occhi di chi l'aveva scampata bella, senza tuttavia confessarcelo a parole.
Così ammucchiata la città se ne stava ad osservare le sue mattonelle e i suoi porfidi diventare più lucidi e odorosi, in attesa forse di qualche risposta. Per fortuna una vampata di frittura proveniente dal McDonald's ci ricondusse tutti nel mondo reale. I discorsi ripresero a fluire via via sempre più vigorosi. Osservai esempi di varia umanità: fu un bestemmione a riaprire le danze, poi una ragazzina tirò fuori un completino intimo appena acquistato, mostrandolo alle sue amiche, mentre un gruppo di ragazzetti riuniti in cerchio si faceva girare un accendino Bic verde, discorrendo di marmitte.
Quel sabato pomeriggio il temporale illuminò la città, e mi sorprese solo. Solo in mezzo a tanta gente. Avrei dovuto prendere e andarmene, sfidare solitario quella pioggia improvvisa, ma rimasi lì, imbarazzato, ad ascoltare discorsi altrui e a sorridere di tanto in tanto.
Non accennava a smettere. Lampo, tuono, lampo, tuono, lampo. Il temporale si stava avvicinando sempre di più; oramai incombeva sulle nostre teste. Mi guardai ancora a destra e a sinistra senza trovare nessun viso conosciuto. Non c'erano occhi per me. Così tirai fuori il cellulare dal taschino, fingendo di controllare i messaggi. All'improvviso sentii un darsi di gomito generale e anche qualche ironico applauso. Risate incontrollate davano libero sfogo alla frustrazione.
«Più forte, così, non ti fermare!» incitava la folla.
«Stai attento, eh, che ti prende!»
Guardai oltre al portico. Lo conoscevo: era Alan. Andava alla mia stessa scuola alle elementari. Doveva essere autistico o roba del genere. Di lui sapevo solo che aveva trovato lavoro in Comune. Con quali mansioni non lo seppe mai nessuno. E adesso se ne stava lì a prendersi l'acqua, con l'ombrello chiuso, impugnato a mo' di spada, a dare stoccate invidiabili alla pioggia.
«Forza, non ti fermare!» Il pubblico non aveva occhi che per lui.
All'improvviso uno scoppio, un'esplosione. La città ne fu sgomenta. Dovettero sentirsi così i primi uomini sulla terra alla vista dei primi fulmini, quando venne loro spontaneo temere l'ira di Dio. Ma più di tutti ne fu spaventato Alan, che si buttò a terra come allo scoppio di una bomba a mano. Il pubblico apprezzò.
Non si preoccupò delle risa Alan, si rialzò tranquillo pulendosi con un fazzoletto di stoffa i pantaloni. Era ben vestito. Riprese il suo ombrello nero dirigendosi sotto i portici. Dalla sua spada sgocciolava ancora il sangue trasparente del suo invisibile nemico aereo. Fu circondato di sguardi. Così Alan sfilò dalla tasca il suo telefonino, fingendo di rispondere a qualcuno.
«Sì, sì, ho detto che arrivo!» disse, preso da un tic che lo trapasso dalla spalla sinistra alla destra, contorcendogli il mento.
Era l'ultimo e costosissimo modello della Nokia.
La gente non rideva più. Tutti cercarono di cambiare discorso, di punto in bianco, imbarazzati. Affrontare i propri nemici. Questo fu il suo primo insegnamento. In seguito mi insegnò a montare una radio, pezzo per pezzo.

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