Il sapore del ferro

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Quando finalmente si decise a rientrare nel suo appartamento, lo fece e basta.
La casa era al buio. Accese appena appena la lampada alogena, muovendo la levetta con il piede.
Lei era ancora lì, sul divano, profumata e dimessa come il suo Venezuela. Piccolo chicco di caffè dalle labbra smisurate.
Gli si strinse il cuore a vederla così beata, nonostante tutto.
Luca si mise a sedere sul tavolinetto di fronte, come a voler vegliare su di lei.
Lasciala dormire, si disse. Almeno questo glielo devi.
Si accese una sigaretta.
Ma aveva una gran fretta di parlare. Aveva bisogno di sentirla ancora sua.
La sua voce uscì, per un attimo, nonostante le sue intenzioni.
Fu un soffio: «Ehi piccola».
Poi quasi come in un pianto soffocato.
«Isabela...»

****


Isabela Tortolero. E pensare che quando Luca la conobbe odorava vagamente di aglio e frittura.
Avranno avuto su per giù quattordici anni tutt'e due, quindici al massimo. Andavano al Liceo insomma, e Isabela, a dispetto delle sopracciglia nerissime, continuava a ossigenarsi i capelli.
Dicevano che se la faceva con altri sudamericani del cazzo, Isabela. Ma questo a Luca non importava. Lui prendeva semplicemente il suo abbonamento scolastico per i mezzi, e se ne andava in giro, alla ricerca del suo cognome. Tortolero.
Lo faceva guardando sui citofoni, quartiere dopo quartiere, con discrezione. Le mani in tasca. E lo faceva fino a sera, quando rimanevano solo fiochi lampioni a illuminare certe vie.
Raramente riusciva ad arrivare in orario per la cena, il più delle volte trovava qualcosa da scaldare nel microonde.
Non è che allora passasse molto tempo a casa, né per i compiti né per altro. Non aveva nemmeno tanta voglia di starsene con il padre in officina. Lui tornava da scuola, mangiava un boccone davanti alla televisione, e poi saliva su qualche autobus, alla ricerca di quel cognome. Non demordeva nemmeno sotto la pioggia.
Intendiamoci, lui non l'avrebbe mai suonato quel campanello.
È che Luca Salti aveva un piano, ecco.
Doveva semplicemente capire dove abitava, per poi gironzolare attorno alla zona. Tutto doveva sembrare casuale.
A scuola non le avrebbe mai detto nulla, figuriamoci, con tutte quelle teste di cazzo attorno. E poi era lei che se ne stava sempre per i fatti suoi.
Mentre a incontrarla in giro sarebbe stata tutta un'altra storia, potevi starne certo. Ormai se le era ripassate un milione di volte le cose che doveva dirle. Ne aveva una per ogni situazione. E si immaginava pure le sue, di battute, come in un copione teatrale.
Comunque gli piaceva andarsene in giro per la sua città. C'era qualcosa di magico in quel cielo d'inverno che diventava scuro sempre troppo presto; e che spegnendosi accendeva finestre, una dopo l'altra.
E poi c'era quell'odore. Non te ne accorgevi sempre, ma c'era. Era un odore che ti rimaneva dentro quello. Quando Luca ci ripensa lo sente ancora quell'odore di periferia.
A un certo punto si stava per arrendere Luca. Ormai non ci sperava più. Oltre alle zone ancora da visitare cominciavano a venirgli seri dubbi. Che ne sapeva lui? Poteva anche esserselo perso in giro, il suo cognome. Magari era uno di quelli che sembravano essere stati mangiati via dal calore di un accendino, o da un cortocircuito. Ne aveva visti parecchi così, e in diverse zone. Poteva anche non averlo il citofono. Lui che ne sapeva?
Aveva provato una volta a sbirciare sul registro di classe per cercare il suo indirizzo. Non c'era. Due righe vuote.
Fu lei a trovarlo. Lui se ne stava tranquillamente seduto davanti a un campetto di basket.
«Salti, sei tu!? Ma che ci fai qui?»
A Luca gli si gelò il sangue. Riconobbe al volo la sua voce.
«Io? Niente. Sono qui. Sai, avevo voglia di fare un bel giro e mi sono ritrovato qui» le disse preso dal panico.
Poi cercò di calmarsi.
Almeno una, si diceva, cerca di ricordartene almeno una di quelle frasi che ti sei preparato.
«Tu invece?» disse infine, dopo una certa esitazione.
«Sono venuta a prendere mio fratellino» disse indicando il campo.
«Qual è?»
«Lì, guarda. È quello con la tuta verde.»
«Ah ecco.»
Assurdo. Più pensava a cosa dire e più se ne stava zitto. Riusciva solo a voltarsi di tanto in tanto, per vedere se lo stesse guardando o meno. Niente da fare, lo sguardo fisso sul fratello.
Alla fine fu lei a parlare.
«Sei riuscito a prepararti in Storia?»
«Macchè, non ci penso nemmeno» disse con un fare da duro, infilando le dita della mano destra tra le maglie di ferro della recinzione del campetto.
«Ma sei pazzo! Manchi praticamente solo tu ad essere interrogato. Quella ti becca di sicuro.»
Luca non sapeva cosa dire. Più cercava di apparire disinvolto, più si accorgeva di essere impacciato; e lei, lei non faceva altro che sorridergli, con quelle sue enormi labbra indigene.
Non sapeva più dove guardare.
Nel frattempo arrivò pure il fratellino di Isabela, José. Gli si infilò sotto un braccio. Dopo un certo silenzio alla fine Isabela gli disse:
«Se vuoi possiamo studiare un po' a casa mia, se ti va».
Fu così che Luca, Isabela e il piccolo José salirono su uno di quelli gialli. C'era da prendere il 3 fino al monumento dei caduti per poi cambiare con il 7 fino a fine corsa, alla stazione degli autobus. La soluzione di un mistero. Il suo abbonamento teoricamente manco ci poteva arrivare fino a lì.
In quella zona in primavera ci montavano il tendone del Circo.
«E così è qui che abiti?» le disse.
«Già» rispose lei.
Una bella rampa di scale all'interno di un condominio popolare prima di arrivare davanti a quella porta di legno mangiucchiato. Fu quella la prima volta che Luca entrò in casa Tortolero. Mise le pattine prima di varcare la soglia. La casa era piuttosto unta, e sul divano, subito dietro alla porta d'ingresso, c'era una vecchietta abbandonata. Difficile dire se viva o morta, certo era che ti ci potevi prendere un bello spavento a ritrovartela davanti senza nessun preavviso. Del resto erano diverse le cose inquietanti in quella abitazione, non ultimo quell'enorme crocefisso che faceva bella mostra di sé nel tinello.
«E quelli cosa sono?» chiese a un tratto Luca indicando una parete.
«Quelle? Quelle sono maschere, rappresentano Satana.»
«Ottimo» disse Luca con fare scherzoso.
«Che scemo che sei! Le ha fatte mio padre, sono per la cerimonia de Los Diablos Danzantes. Sono di buon auspicio sai? A San Francisco de Yare, il nostro paese, abbastanza vicino a Caracas, i ballerini le indossano nel giorno del Corpus Domini per poi sfilare per le strade. Mio padre mi ci portava sempre a vederli. Ero molto piccola però.»
Luca rimase imbambolato davanti a tutta quella tradizione.
«Dai su che dobbiamo studiare!» disse lei ridestandolo.
Luca si lasciò piegare docilmente sui libri di testo, senza fiatare, fino a quando la signora Tortolero gli chiese se volesse per caso rimanere a cena da loro, e se voleva chiamare a casa per avvisare. Luca fece segno di sì. C'era del manzo a cena, servito con del riso e della roba fritta sopra. Doveva essere un piatto tipico.
Quel loro primo incontro, quello che aveva tanto cercato, non poteva essere più perfetto. C'era qualcosa di magnetico fra loro. Anche per salutarsi ci misero diverso tempo, seduti sui gradini davanti alla soglia di casa, con quella luce che si accendeva e spegneva a tempo, ogni minuto e mezzo all'incirca, con Luca ad allungare il braccio per riaccenderla ogni volta.
Isabela, in quella luce che andava e veniva, spiegò a Luca che un giorno suo padre li aveva abbandonati per stare con un'altra donna.
Da allora Luca passò sempre più spesso in casa Tortolero, anche di sera, dopo cena. Ai suoi diceva semplicemente che andava a farsi due passi. Spesso si appartavano su quelle stesse scale, magari un paio di piani più in basso, e se ne stavano al buio. A luce accesa avevano così tempo e modo di ricomporsi, smettendo di baciarsi o spegnendo le sigarette sotto le suole delle scarpe.
Quasi sempre era la Señora Sanchez, quella del quarto piano, a interromperli.

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