Metrature d'esistenza

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Vai a letto all'una e trenta, con le idee confuse e un principio di mal di testa. Reduce da una serata dove ci hai capito poco o nulla. Poi ti svegli ed è domenica, una domenica qualsiasi.
Tu prendi una domenica qualsiasi. Una di quelle con la spremuta d'arancia nel bicchiere lungo, tanto per intenderci, che poi c'è Jenny che si incazza perché le hai lasciato gli schizzi sullo specchio del bagno. E tu ci provi anche a spiegarglielo che mica lo fai apposta a sporcare in giro, e scusa tanto se esisto, dici.
Una domenica così, con le finestre spalancate a far circolare l'aria. La tele accesa a volume basso sull'uno, l'aspirapolvere che gira per casa, il caffè che pian piano vien su.
Fai conto che sei sdraiato sul divano, e sei lì a coprirti le gambe pelose con il plaid, per ripararle dalla brezza mattutina. Ti accendi una sigaretta e apri il giornale, quello locale, quello che tu e Jenny prendete solo la domenica perché gli altri giorni non avete tempo per leggere; lo apri, e all'interno lo trovi pieno di sottolineature, e asterischi, e cerchietti blu, che manco Dustin Hoffman quando cerca lavoro in uno dei suoi vecchi film riduce così la pagina degli annunci. Ma non c'entra il lavoro.
Ti metti a curiosare. C'è un cerchio tutto attorno a un bilocale appena ristrutturato con salone godibile. Un altro appena sotto, con l'aggiunta di una sottolineatura verticale, su un cento metri quadri in grazioso contesto. Un altro giro di penna sembra incattivirsi più in là, su un bilocale già arredato, disponibile da subito. Poi altri appartamenti cerchiati e poi cancellati.
Sono le pagine degli annunci immobiliari. Tu eri diretto a quelle sportive, ma non hai potuto fare a meno di notare tutto quel lavorio mattutino. Così la chiami.
«Amore!»
Lei non risponde, non sente. La tua voce non riesce a sovrastare l'aspirapolvere. Allora gridi.
«Jenny, puoi spegnere quel coso?»
Intatto la cenere della sigaretta che ti eri acceso e dalla quale ti sei ricordato di fare giusto i primi due tiri, cade compatta sul tavolino. Cerchi di raccoglierla con minuzia, usando uno scontrino della lavanderia.
L'aspirapolvere intanto si spegne.
«Cosa?» dice Jenny, dal fondo del corridoio.
Riponi con cura nel posacenere tutto quello che sei riuscito a raccogliere. Sospingi la cenere con il dito prima di dire:
«Puoi venire qui un attimo?».
Jenny è uno splendore questa mattina: ha di nuovo i capelli lunghi, come ai tempi dell'università. Merito di una sua collega di lavoro che le ha ceduto un buono da duecento euro per Lorenzini, un parrucchiere che riceve in una palazzina del centro. Le ha detto che tanto lei non ci poteva andare, di non farsi problemi, che se no giovedì scadeva ed era peccato. È finita che c'è andata e si è fatta mettere l'extension: centocinquanta ciocche di capelli veri, attaccate una ad una con della colla calda. È andata a finire che gli ha dovuto dare altri soldi, al Lorenzini, oltre al buono.
Jenny arriva e ti trova lì col giornale sulle ginocchia. Si sposta i lunghi capelli su un lato solo, in un gesto che non le vedevi fare più da anni.

Che poi a dirla tutta, tu all'università non stavi mica con Jenny. Stavi con Sara, e Jenny era solo la sua amica bionda. E un po' ti scocciava anche averla sempre tra i piedi. Telefonate, confidenze, e tutto quel parlare; sempre nei momenti meno opportuni. Chi l'avrebbe detto che sareste finiti assieme voi due.
La sera che hai cominciato a guardarla in modo diverso e a farci su qualche pensiero eri a braccetto con Sara, e stavate andando tutt'e tre a una festa di amici in Via Paolo Sarpi. Jenny aveva una gonnellina a fiori, semitrasparente.
Era per dei vostri amici che erano tornati da un semestre di studi, per così dire, dalla Spagna, secondo il programma Erasmus. Di quella festa ricordi che i drink erano lasciati alla fantasia di ognuno. C'erano delle bottiglie sul tavolo: rum, gin, vodka e martini rosso; ma anche cartoni di succhi di frutta: arancia, ace, pompelmo, pera, carota, albicocca. Ognuno poi se li miscelava come gli pareva. Ne vennero fuori imprecisate sostanze colorate in bicchieri di plastica bianca.
Quella sera avevi fatto il pieno, e a un certo punto ti sei trovato a sostenere che per parlare lo spagnolo bastasse parlare in napoletano con l'aggiunta della esse finale.
«All'anime 'e chitammuortes» dicevi, tutto divertito. Ma eri solo tu a ridere.
Poi c'era Sara che si scusava per te, per poi riprendere uno di quei suoi discorsi metafisici che tanto le piacevano. Tu a un certo punto le hai sfilato una sigaretta dalla borsa e sei andato a farti un giro.
E hai trovato Jenny sulla tua strada, appoggiata all'anta della porta della cucina, col suo bicchiere di sbobba rossa in mano, e quella sua aria sognante. Il bianco della sua pelle t'incantò.
Vi siete messi a parlare del più e del meno. Ti stava confidando che non trovava per niente male quel Marco, un damerino con la felpa azzurra legata attorno alle spalle. La cosa ti infastidiva.
Sapevi che era sbagliato e la ragazza che da due anni dicevi di amare era di là, a parlare di reincarnazioni con due tipi appena conosciuti, ma hai cominciato a desiderarla.
Non lo sai com'è successo. Forse sono cose che capitano e basta. Fatto sta che dopo un po' ti sei ritrovato in bagno con Jenny.
L'amica bionda di Sara.
Forse ti aveva solo chiesto se l'accompagnavi, se le tenevi chiusa la porta del cesso, o roba del genere. Non te lo ricordi.
Ricordi però quello che ti ha detto poi là dentro, soprattutto per il modo; la voce che aveva quando ha fermato le tue mani, e ti ha detto, morbida come una caramella gommosa:
«Non qui.»
Ancora ti eccita quando ci ripensi.
E' domenica. Una di quelle domeniche con la spremuta d'arancia nel bicchiere lungo, e l'aspirapolvere che padroneggia per casa. Jenny arriva, si gratta in testa, e a precisa domanda risponde che ne avevate già discusso, e che eri stato tu a dire che questa casa era troppo grande per voi due. Lei si era semplicemente data da fare.
Poi torna a grattarsi la testa, con insistenza.
«Ti danno ancora fastidio?» le chiedi.
«Un po'» risponde, spostandosi la chioma sull'altro lato. «Carlo mi ha detto che è solo questione di abitudine, ma a me sembra di impazzire.»
«Non è che sei allergica a quella roba?» dici tu.
«Ma no, dai, non credo.»
Le danno un prurito bestiale, le extension. Ha tutto il collo arrossato. Glielo baci. La aiuti poi a spalmarsi sulla nuca una pomata lenitiva, con olio di jojoba e Aloe Vera, mentre ti dice che ha preso accordi in settimana, bazzicando con agenzie, annunci e passaparola vari.
«Ci sarebbero degli appartamenti da vedere», dice, «pensavo andasse bene anche per te fare un giro.»
E te lo dice in una domenica con le finestre aperte a far cambiare l'aria, una di quelle domeniche che vorresti poi passare tra il sonno e la veglia, sul divano, mentre i risultati delle partite scorrono discreti, in sovrimpressione.
«Va bene» dici. In un sospiro. E lo dici guardando negli occhi una donna che ha gli stessi capelli di quando si andava all'università.
Così un sabato vai a letto all'una e trenta, con le idee confuse e un principio di mal di testa. Poi ti svegli e scopri che non ci vuole poi molto per farti girare per appartamenti la domenica pomeriggio: due occhi tristi, e centocinquanta ciocche di capelli biondi, più o meno.
Il primo appuntamento è con il signor Ramperini, un brillante trentenne col pizzetto. Sorride appena vi vede sbucare all'angolo, probabilmente tirando a indovinare. Ha le guance rasate di fresco, il colletto bianco e la faccia di chi ha già cambiato mille lavori. Istintivamente è uno che fa simpatia.
Con il culo appoggiato su un'Alfa rossa, il signor Ramperini vi comunica che ha tre appartamenti da farvi vedere, per realizzare i vostri sogni.
14.55, Via Cechov. L'appartamento in questione si trova al terzo piano di un palazzo senza ascensore. Il portone sta tra la farmacia e il tabaccaio, come se non volesse prendere posizione tra due fazioni, tra una stecca di sigarette e una di liquirizia.
In una domenica che avresti voluto passare a sonnecchiare con la tele in sottofondo, ti ritrovi invece a girare per appartamenti, e a pensare.
Pensi a tutti gli annunci che ci sono sui giornali, agli agenti imbellettati che girano la domenica, pensi ai pianoforti calati giù dalle finestre. Pensi che forse non si fa altro che portare a spasso le proprie vite, da un appartamento a un altro, nell'effimera illusione di essere davvero in movimento, con le proprie scatole di ricordi. Pensi alle stanze che hai occupato nella tua vita, e a chi ci starà adesso. Pensi che forse non si è altro che inquilini che si danno il cambio, nella vita, senza incontrarsi mai.
In una domenica così può capitare che ti metti a pensare cos'è rimasto di te, in giro.
Pensi alla prima volta che hai vissuto solo, al tuo appartamento all'università, che era poi quello di un diciottenne assieme ad altri tre diciottenni, ragazzi che non avevano mai vissuto senza genitori. Tu avevi una stanza con un letto singolo, e ti ci buttavi sopra con ancora le scarpe da ginnastica addosso.
L'ultimo affitto sei passato tu a pagarlo, alla Rosanna. Stava in canottiera a spazzare il pianerottolo, e aveva sulla spalla destra un gigantesco cerotto di nicotina.
«Poi diventano mano a mano più piccoli» ti aveva detto.
Sei diventato malinconico guardando quell'appartamento privarsi di te. Pensavi: ok, il gas l'ho spento; e ti sei chiuso la porta dietro le spalle, nella convinzione di aver lasciato qualcosa di te in quegli angoli vuoti, in quelle sagome di poster scollati, nel segno giallo dello scotch.
Pensi al parquet rigato a casa dei tuoi, quando a dieci anni ti eri messo in testa di imparare a pattinare sul ghiaccio.
Pensi ai disegni che hai fatto col pennarello rosso, sul muro dei nonni. C'eri tu, mamma, papà e un sole che sorride, su quella parete. La casa, nel disegno, era più piccola di voi.
Ore 17.45, Viale Hemingway. E' la volta del dottor Cavoni. Dice che ha lui la soluzione per una coppia in gamba come voi. Vi conduce in un ampio salone luminoso e dice:
«Adesso, però, dovete immaginare.»
Nessun segno di passaggi precedenti qui.
Non ci sono sagome di poster scollati, astri sorridenti, né evoluzioni che tagliano il parquet come ghiaccio. Qui tutto è ripulito e levigato, e i muri sono di un bianco accecante, quasi quanto i sorrisi dei venditori. Pensi che faccia parte della loro procedura cancellare il passato della gente, dare l'idea del nuovo, dell'immacolato.
In una domenica così capisci cosa vuole la gente, e quello che la gente vuole sono spazi vuoti da riempire di perfezione.
A nessuno interessa la tua brodaglia riscaldata, ciò che per te è stato gioia o dolore. La gente vuole un angolo cucina dove incastonare una lavastoviglie a scomparsa, coltelli multiuso e tritatutto. La gente vuole sofisticate Chaise Longue al centro del salotto e amene amache in giardino, vuole angoli vuoti dove piazzare lampade alogene, e librerie che si attorcigliano verso il soffitto. La gente vuole i box doccia che fanno anche da sauna, i bagnoschiuma alla pesca, e le bilance che calcolano la massa magra in base a i parametri che gli inserisci tu.
E candele, di ogni colore e fragranza.
Ognuno a suo modo cerca di costruire la propria perfezione, pezzo per pezzo, come con il libretto delle istruzioni. Secondo i dettami del Feng Shui.
Ricordi che anche tu e Jenny, qualche anno fa, vi eravate messi a riempire casa, se non proprio di perfezione, almeno di decenza.
Ricordi che eri lì con Rino, Dario, e Jonahatan, a cercare di montare una specchiera modello Tibetan-Wave, un armadio a tre ante, e un comodino "ergonomico".
Jenny vi girava attorno con uno straccio, dandovi qualche direttiva di tanto in tanto. Le dava sorridendo, senza la pretesa di essere ascoltata. Forse per il semplice gusto di sentirsi mandare a quel paese da te. Faceva l'infermiera all'ospedale in quel periodo, e frequentava corsi di yoga, biodanza e ceramica. Sempre impegnata a far qualcosa, Jenny. Già portava i capelli corti allora, diceva che li trovava molto più pratici.
Alle dieci di sera avevate ordinato cinese per telefono, per consumare poi involtini primavera e riso cantonese su quello che sarebbe stato il vostro armadio. Sotto le istruzioni svedesi, quel pezzo che non si riusciva a trovare.
Ore 18.07. La vostra terza agente porta un elegante tailleur nero. Si presenta semplicemente come Elena.
Vi porta in una stanza, quella che secondo lei sarebbe la stanza perfetta per dei bambini. A quelle parole Jenny si è messa a piangerle addosso. Sull'elegante tailleur.
In una domenica che inizia con una spremuta d'arancia nel bicchiere lungo, le finestre spalancate e la tele a volume basso, capita che a un certo punto ti metti a piangere e a dire cose che fanno male.
Dici a Jenny che è una stronza, e che non ti farai trascinare nella sua merda. Le dici che hai diritto, il sacrosanto diritto di uscire per i fatti tuoi il sabato sera, a prendere un po' d'aria, e che ti sei rotto di piangere. Hai pianto abbastanza. Basta.
Quando le urli in faccia tutto questo, Elena fa finta di ricevere una telefonata, lasciandovi da soli. A te, intanto, torna il mal di testa.
Le cose all'improvviso si fanno chiare. Capisci che sei in giro la domenica perché a casa hai una stanza in più, una stramaledetta stanza in più, tra la toilette e la camera da letto, a contenere in cellofan e cartoni sigillati un futuro che non c'è stato. Neanche dieci metri quadri.
Una stanza che Jenny pulisce di rado, e velocemente.
E adesso siete lì, in giro per appartamenti, la domenica, a cercare spazi vuoti da riempire di dimenticanza, visto che alla perfezione avete smesso di credere.
Sonia. Nemmeno tre mesi fa vi avevano detto che stava bene, che era lunga 50 centimetri e che pesava all'incirca tre chili; e voi eravate pronti da tempo con i vestitini e tutto quanto il resto. Scarpette, lavatoio, pannolini ecologici, animaletti che girano dietro una musica cantilenata. Come pezzi di perfezione in miniatura.
Poi quella maledetta notte d'agosto ti sei svegliato con Jenny che strillava, con l'Africa tra le gambe. Un'Africa di sangue che si andava ad imprimere sul pigiama di Jenny, e nella tua memoria. Poi la corsa all'ospedale e quel battito che si faceva sempre più lento. Il parto con le contrazioni e tutto il resto.
Sonia, la vostra bambina nata morta, dopo anni di tentativi.
Ore 18.50. Jenny è seduta su degli scalini giù in strada. Piange e si gratta la testa. Infila in borsa due ciocche che le si sono appena staccate, come foglie morte.
Che fai lì impalato? Diglielo che sei uno stronzo, che non la meriti. Diglielo che l'ami, e che per lei saresti disposto a cambiare cento appartamenti, e trascinare la tua vita da una casa all'altra, solo per non vederla così. Diglielo quanto è sexy con quei jeans stretti, e i capelli lunghi.
Ore 19.00. Comincia a fare freddo. Si sente il profumo delle caldarroste da qui, come trasportato dal vento.
Dai. Che poi andate a mangiarvi una pizza fatta col forno a legna, piena di pomodoro.
Che aspetti? Portala a mangiare fuori e dille che aveva ragione lei, su tutto, che ci dovete riprovare, con l'inseminazione, le visite, i calcoli dei giorni, le iniezioni, e tutto quanto. Buttala sul ridere. Dille che sei pronto a fare il tuo dovere con i barattoli per il liquido seminale e le riviste pornografiche. Diglielo che non hai paura di altre delusioni, perché comunque vada quelli che contano in questa faccenda siete solo voi due.
Diglielo quanto la ami, ti prego. È la tua Jenny quella.

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