L'ho detto sul serio

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La casa era uno schifo.
Il tavolo era contro la parete, per il lungo. C'erano delle forbici sopra, e ritagli di giornale, moltissimi. La colla non era nemmeno stata richiusa come si deve. Un casino.
Ormai erano giorni che mi arrangiavo a mangiare in piedi. Del resto tutti i piatti di cui disponevo erano a mollo nel lavandino, assieme alla paglietta sfilacciata. Cominciavano a puzzare con il caldo.
Così ho detto:
«Adesso basta!».
Non l'ho fatto apposta, lo giuro, mi è uscito così.
E lo ho quasi gridato, accidenti.
«Adesso basta!»
Però me ne sono vergognato subito, stavolta.
Beh? Sarà capitato anche a voi, che siete tutta gente normale e sicuramente perbene, di fare delle cose così, senza pensare. Sarà capitato anche a te, mia dolce bambina.
Io per esempio da piccolo me ne andavo in giro per il paese, da solo, pensando ai fatti miei. E all'improvviso mi ritrovavo a correre, in balia di chissà quale demone; poi mi fermavo col fiatone, ad osservare la mia ombra proiettarsi infinita.
La mente era altrove.
Quando me ne accorgevo, provavo questo stesso tipo di vergogna. Mi guardavo a destra e a sinistra cercando di capire se qualcuno avesse assistito a quelle mie evoluzioni solitarie.
Spesso era Don Calogero a raccattarmi in giro e a riportarmi a casa. Smetteva per un attimo di interrogarsi su chi fosse Carneade, appoggiava su qualche masso il suo breviario, e mi diceva:
«Dov'è che vai? Animalunga
I pensieri sono un brutto affare, specialmente quando si mettono a correre. Io poi sono abituato a tirarmeli a lungo, i pensieri; sono fatto in questa maniera. Mia mamma dice che è perché io ho un cuore grande.
Un cuore grande così.
L'estate è un tempo smisurato, non passa mai. Oggi come allora.
Così, quando ho visto tutto quel disordine, ho detto:
«Adesso basta!».
L'ho detto come se stessi sgridando un gatto, ma ce l'avevo con me stesso.
Delle volte parlo da solo, e me ne vergogno.
Non è che faccio proprio dei discorsi. Dico più cose tipo "le aspirazioni!!!" oppure "mamma" o anche "cinque minuti...", a seconda di cosa ho in testa in quel momento.
Il più delle volte mi insulto per qualche episodio della mia vita passata, per qualche rimpianto.
Ah, sì, l'altro giorno ho detto "puttana".
Mi è uscito di rabbia. Scusami, bambina mia.
Ora guardo il mio letto sfatto e grinzoso e tutta la desolazione qua attorno. Pensare a te in questo momento mi sembra un assurdo.
Il tuo volto, la tua bocca, i tuoi seni.
Decido di cambiare le lenzuola. Non ci dormo su quell'impiastro che ho fatto lì in mezzo. A tutto c'è un limite.
Guardo proprio in quel punto: quello che ieri sera era calda simulazione di te, è ora rugosa increspatura.
Stacco il lenzuolo da sotto il materasso e lo infilo nella lavatrice. Dall'oblò assisto allo strabiliante spettacolo di una schiuma che cancella un'altra schiuma. La mia.
E pensare che con quella roba appiccicosa ci fanno i figli, le donne!
Ritorno ai miei ritagli, e ci sei tu, dappertutto. Seguo il profilo del tuo corpo con un dito e poi con la forbice. Quante cattiverie dicono su di te.
«Ti porterò via da quello schifo, piccolina mia.»
L'ho detto, ma non me ne vergogno. L'ho detto sul serio.

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