Capitolo 1

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Rockford, 1953


La stanza numero 16 del motel Garden, situato nella periferia meridionale della città, aveva le dimensioni standard di un qualsiasi altro motel che avesse mai visitato in tutta la sua vita: sulle pareti giallo ocra erano stati appesi dei quadretti con fotografie della città ma che non venivano spolverati da diverso tempo, mentre le mattonelle del pavimento erano di un colore indefinito, a tratti sbiadite e consumate dai passi degli avventori che lo avevano calpestato negli anni.

Eppure Seb, prima di partire, gliene aveva parlato così bene da farlo sembrare un hotel di lusso.

"Mai fidarsi di un canadese" Pensò l'uomo entrando nella camera con un sospiro infastidito. "Per lo meno non c'è la moquette"

Dopo aver fatto un giro di ricognizione e aver posato la giacca nera su una sedia, si avvicinò al letto situato contro il muro e ne spostò la coperta verde oliva con veemenza, quasi ad assicurarsi che al di sotto ci fossero delle vere lenzuola: quando fu soddisfatto, si sedette tenendo lo sguardo fisso di fronte a sé, verso il mobiletto con il telefono verniciato di un blu scintillante e la tastiera circolare.

Non sapeva cosa fare: odiava l'idea di dover restare un'intera settimana lì, chiuso in quella schifosa stanza ma, ciò che odiava ancora di più, era l'uomo che ce lo aveva mandato. Pur di scampare alle pressioni di José, aveva preferito partire con più di mezza giornata di anticipo sulla tabella di marcia per andare all'incontro programmato con i cubani. Anche a costo di ammazzarsi di noia.

Si sdraiò all'indietro, sospirando nervoso e ripassando mentalmente il piano che avevano concordato.

Per fortuna l'uomo alla reception non aveva fatto domande sul nome con cui si era registrato quella mattina e, nel caso avesse fatto finta di niente solo per chiamare la polizia in seguito, sapeva già come metterlo a tacere.

Rimase fermo ad osservare il soffitto bianco per diversi minuti, fino a quando non si tirò di nuovo su a sedere per chinarsi verso il borsone scuro che aveva posato accanto ai propri piedi: da una tasca sul lato spuntava il pacchetto di Marlboro quasi finito che aveva comprato la sera prima e se ne accese una.

Il fumo invase prepotentemente la camera, salendo verso l'alto e attorcigliandosi in morbide spirali grigiastre.

«Dio, che pena» Borbottò passandosi una mano sul volto stanco. 
«Che cazzo mi è preso quando ho accettato questo lavoro?» Continuò, guardando con la coda dell'occhio la Colt riposta nel borsone e appoggiata sopra il mucchio di mazzette che avevano promesso ai cubani.

Poi, sorridendo, scosse la testa malinconico: quando aveva poco più di ventiquattro anni si sentiva il re del mondo... Mentre ora era solo un altro criminale in disgrazia al soldo dell'ennesimo Signore della droga.

Aveva davvero sbagliato tutto nella vita, merce di contrabbando compresa.

Si sporse col petto in avanti, infilando una mano nella tasca interna della giacca dove teneva l'unico pezzo di carta in grado di dimostrargli che era anche riuscito a fare qualcosa di buono nella vita.

La polaroid, che lo ritraeva in compagnia di una giovane donna con una bambina in braccio, era stata scattata a Miami Beach qualche anno prima, su una delle immense spiagge di sabbia chiara che circondavano la città.

Quella era stata l'ultima volta che aveva visto Rose. Era stato tentato di rimanere ma, per il bene della ragazza, aveva scelto di tornare a Chicago e di tenerla lontana dagli affari pericolosi in cui si era invischiato. Era stata una scelta dura, ma necessaria.

Fu poi il trillare fastidioso del telefono in bakelite a riportarlo bruscamente alla realtà: con un gesto rapido si allungò a prendere la cornetta in mano e se la portò all'orecchio.

«Sì?» Chiese seccato portandosi la sigaretta alle labbra.

La voce dall'altra parte del telefono sembrava divertita.

«Ti avevo detto di chiamarmi appena fossi arrivato»

«Stavo per farlo, infatti» Rispose a denti stretti, cercando di trattenere la calma per non far fuori il colombiano, anche se in quel momento era fisicamente impossibile sparargli.

«Non mentirmi, ho dovuto chiamare io il proprietario per sentirmi dire che un certo Antony Blackwood si era registrato più di due ore fa» Gracchiò l'uomo dallo spiccato accento spagnolo.

«L'incontro con Mendoza è stasera, non fa alcuna differenza a che ora sono arrivato. Ora sono qui in questo motel del cazzo a grattarmi le palle, sei contento?» Sbottò l'uomo serrando il pugno con rabbia.

«Datti una calmata cabrón»
Ridacchió José. «Non mandare tutto a puttane, quelle armi ci servono»

Antony sbuffò, respirando a fondo per non mandarlo subito al diavolo ma si contenne ripensando alla foto di poco prima. «Non ho bisogno della baby-sitter. O hai dimenticato con chi hai a che fare?» Lo scherní.

Doveva stare calmo per Rose.

«Oh, io non ho dimenticato, hombre, ma è meglio ricordartelo... Non vorrei dover mandare qualcuno in vacanza a Miami...» Mormorò l'altro, con tono melenso.

A quella frase seguì un breve silenzio inquietante. Antony si irrigidí a tal punto da sentire scricchiolare la bakelite della cornetta sotto le proprie dita.

«Non osare dirlo un'altra volta, sai che fine ho fatto fare all'ultimo che ha provato a minacciarla»

José ridacchiò appena, abbassando il tono di voce.

«Freddy era un marica. Ma io non sono così e tu lo sai bene... Perciò, come ti ho detto prima, vedi di non mandare tutto a puttane. Ci siamo capiti?»

«Sì» Disse Antony gelido, in profondo contrasto con il fuoco che gli scorreva nelle vene.

Il colombiano sospirò soddisfatto e prima di riattaccare disse rapidamente: «Bien. Ci risentiamo». Seguì lo stacco della chiamata, con il tipico tu-tu che risuonava veloce nella cornetta.

«Figlio di puttana» Sbraitò il moro, lanciando la cornetta verso il muro che però cadde prima di colpirlo, rimanendo a penzolare giù dal tavolino. «Mi fossi ammazzato il giorno in cui ho accettato di lavorare con lui!»

Iniziò a camminare su e giù per la camera, pensando al da farsi. Aveva bisogno di uscire e sgranchirsi le gambe. "Non mi farà male un po' di compagnia" Pensò massaggiandosi il collo.

Anche se, a dirla tutta, in quel momento avrebbe preferito essere in compagnia di una certa ragazza con dei lunghi capelli rossi.

Erano da poco passate le nove di sera quando una seconda auto si fermò di fronte all'ingresso posteriore del Saber, un diner aperto da pochi anni.

I fari della Lincoln Cosmopolitan illuminarono il volto stanco e tirato di Antony, che dovette ripararsi momentaneamente il volto con una mano per osservarne il profilo metallico. Rimase immobile, appoggiato con le natiche alla carrozzeria del cofano e aspettò che i suoi due contatti si facessero vedere.

«Blacki, sono anni che non ti vedo» Disse l'uomo sceso dal lato passeggero: aveva anche lui un marcato accento spagnolo. «Non credevo che José mandasse te...»

Tony sogghignò appena mentre faceva un passo avanti nella direzione dei due uomini: quello sulla destra non lo aveva mai visto ma sembrava sapesse il fatto suo. Le spalle enormi facevano da piedistallo per una testa squadrata e dai lineamenti duri, tipici di chi è addestrato a combattere. «Ha capito che io basto e avanzo, me la so' cavare da solo al contrario degli idioti che ha al seguito» Disse divertito. «Al contrario di te, Ray» Aggiunse con velato sarcasmo, tenendo d'occhio il mastino biondo che si era avvicinato.

Il cubano rise divertito, dandogli una vivace pacca sulla spalla. «Vedo che non sei cambiato di una virgola... Comunque non fare caso a lui, è nuovo del mestiere! Sai è venuto qua dall'Europa per cercare fortuna ed è incappato nella mia rete. Però non sembra dispiacergli, è uno di poche parole» Spiegò senza mai staccare gli occhi di dosso a Tony. «Coraggio entriamo. Ho una certa fame» Aggiunse dirigendosi verso la porta in metallo.

Antony, dopo aver recuperato la borsa con le mazzette, lo seguì senza dire altro mentre a chiudere la fila c'era il biondo che richiuse la porta dietro di sé con un clank metallico.

I Demoni di RockfordDove le storie prendono vita. Scoprilo ora