01. closet

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«jek?»
Aprì gli occhi, li richiuse.
Lì aprì ancora, ma il buio era sempre lo stesso, trafitto al centro da una crepa di luce in cui danzavano milioni di piccolissime particelle di polvere. Allungò una mano per sfiorarle, ma tutto ciò che ottenne fu uno spostamento fulmineo di qualche istante, per poi tornare alla stessa identica monotonia di poco prima.
Era rassicurante, per certi versi, che qualcosa stesse ancora funzionando come aveva sempre fatto.
Poggiò la schiena alla parete, e chiuse ancora una volta le palpebre.
Gli faceva male la testa.
La sentiva pulsare ad ondate irregolari, tanto forti che, quando il buio si faceva ancora più buio per via degli occhi serrati, una miriade di puntini bianchi gli si paravano davanti bruciando come cenere incandescente dritta contro le retine.

«jek?» soffiò ancora, allungando le gambe davanti a sé con estrema lentezza, assicurandosi di non urtare alcunché che potesse far rumore. Il problema era che non capiva, non capiva, la testa gli faceva un male cane, non riusciva a vedere nient'altro che puntini e non sentiva niente.
Non riusciva a udire la propria voce, a comprendere se stesse sussurrando o urlando, né a percepire quella di Jekyll. Era fisicamente lì? Era dall'altro capo del telefono? Era mai realmente esistito?

«jek» si ritrovò a ripetere, stavolta con un leggero fremito.
Non aveva paura Park, mai.
In passato ne aveva avuta così tanta da non riuscire più a sentirne neanche un pizzico. Era saturo di paura. Gli scivolava addosso come goccioline d'acqua su una superficie perfettamente liscia, non esisteva alcun ostacolo che la sua folle irresponsabilità non fosse in grado di bypassare.
A volte aveva l'impressione di star semplicemente sperimentando ogni possibile modo di arrivare alla fine in maniera - originale.
Invero, non aveva mai pensato sul serio come sarebbe stato non sentire più niente.
Lo aveva sognato, sussurrato nelle sue preghiere prima di addormentarsi, implorato sul pavimento di un bagno che non era neanche il suo mentre continuava a leccarsi le ferite in un assurdo slancio di sopravvivenza che, a dirla tutta, non aveva neanche senso di esistere. Eppure era ancora lì, a tirarlo fuori dalle situazioni in cui egli stesso si cacciava ancora e ancora, in un rincorrersi eterno tra la voglia di rialzarsi e quella di non farlo mai più.
Quel che trovava più sconvolgente, tra i pensieri ad accavallarglisi nella mente senza lasciargli un fottuto attimo di respiro, era che avesse sempre immaginato di morire da solo. Nella penombra della sua stanza da letto, con le cuffie alle orecchie e la sensazione di trovarsi in un corpo che non era più il proprio, aveva sognato una fine struggevole, ricamata in un quadro di melodrammatica tragedia che non lasciava spazio ad alcun 'lieto' prima dell'ultima decisiva sentenza.
Ed ora che era lì, ora che quella fine riusciva a sentirla sul collo come un fastidioso spiffero, quella frase continuava a ripetersi in un infinito loop nella sua testa dolente: non voglio morire da solo.
Non era paura - Park non aveva mai paura -, era desiderio. Talmente intenso da togliergli il fiato, da impedirgli di ragionare lucidamente e trovare un modo per tirarsi fuori da quell'armadio o, pensando in grande, da quella vita persino.
Gli sarebbe piaciuto poterne cominciare una diversa, una che non implicasse pensieri sulla morte e la necessità di nascondersi in meno di due metri quadri di spazio con soltanto una piccola crepa di luce al centro.

«jek» non attendeva più una risposta, ma gli piaceva il suono di quella parola sulla lingua, aveva un che di rassicurante dietro alle ante consunte di un vecchio armadio divenuto il suo unico rifugio. Ironico che, pur provandoci, non riuscisse neppure a mettere chiaramente a fuoco il volto a cui apparteneva quel nome. Gli appariva lontano, consunto dall'alcol e stropicciato dagli antidolorifici, tanto etereo da chiedersi se avesse mai avuto realmente una forma. Eppure doveva avercela avuta, altrimenti come avrebbe potuto sentirne così tanto la nostalgia? Gli stringeva le costole, tanto da piegarlo in due per il dolore, da assillarlo con quella persistente nausea che gli faceva arricciare le labbra in una schifiltosa smorfia di disgusto.
E rise Park, perché non è che avesse molto altro da fare.
Era bloccato lì, non era neanche tanto certo di essere ancora vivo, e trovava molto divertente che lo stesso luogo che da bambino avrebbe considerato il miglior posto del mondo per giocare a nascondino, potesse risultargli ora così simile ad una prigione e, al contempo, costituire la sua sola salvezza.

«sta arrivando».

Riusciva a sentirne i passi oltre le ante dell'armadio, fuori dalla stanza e da qualche parte giù in corridoio - ma vicino, sempre più vicino.
Provò a raddrizzare la testa, ma un'altra ondata di nausea lo costrinse ad abbassarla nuovamente. Grattò con le unghia nella superficie di legno affianco a sé, lasciandosi sfuggire un lieve lamento.
Assurdo che avesse paura, Park non ne aveva mai.
Era colpa di quel tarlo, quel fastidioso tarlo a dirgli che non poteva morire da solo, proprio non poteva.

«jek» si ritrovò a chiamare ancora, senza più curarsi di quanto forte potesse risultare la sua voce. Ne aveva bisogno, così tanto bisogno da trovarsi disposto ad implorare persino, come se potesse servire, come se ce ne fosse davvero il tempo.
Poi l'anta dell'armadio si spalancò.

«sei in ritardo, non è carino fare aspettare i propri ospiti».
Rise ancora Park, fissando le iridi scure sulla canna della pistola a pochi centimetri dalla sua fronte.
Non stava respirando, o forse stava respirando troppo: difficile stabilirlo, per uno che aveva smesso di sentire ogni singolo muscolo del proprio corpo.
In un movimento quasi impercettibile, provò a muovere le dita della mano sinistra, ancora strette attorno al cellulare, e incredibilmente gli parve di sentire qualcosa. Non una sensazione decisa, non come se avesse ancora tutte e cinque le dita attaccate alla mano, ma abbastanza da ricordargli che, ammesso ne valesse la pena, potesse ancora comunque provarci.
Anche la mano a stringere la pistola si mosse appena, accompagnata da qualche parola che Park non riuscì a decifrare, ma che nella sua testa risuonò come una sorta di conto alla rovescia.

Tre, sollevò lo sguardo oltre l'arma, su sino volto del suo proprietario.
Due, lo abbassò sino al pavimento, cercando di approssimare quanto spazio di manovra avesse.
Uno, e scattò di lato.

Lo sparò colpì il fondo dell'armadio, lì dove un istante prima c'era la sua testa, ed il rumore gli s'insinuò nell'orecchio destro regalandogli l'ennesima fitta di dolore. Forse sarebbe rimasto sordo, o forse dormirci su avrebbe cancellato il fischio come dopo un concerto; a quel punto, poco importava. Ciò che contava realmente era correre.
Doveva essere stata l'adrenalina, la consapevolezza di trovarsi ad un passo così dal baratro, o soltanto il solito vecchio istinto di sopravvivenza, ma i suoi piedi avevano preso a sollevarsi dal pavimento veloci come non erano mai stati prima.
Attraversò la porta della stanza, infilandosi nel corridoio senza vederlo davvero. I mobili, le figure che si scostavano con un certo stupore al suo passaggio, tutto sembrava esserci due volte e non esserci affatto.
Urtò con la spalla qualcosa, ma era difficile sentire dolore oltre quello martellante alla testa.
Valutò l'idea di scendere giù per le scale, ma non era certo di poterlo fare senza rovinare inesorabilmente sul pavimento, perciò fece l'unica cosa possibile: s'infilò nel bagno alla sua destra, chiudendosi la porta alle spalle.
Strinse la maniglia con entrambe le mani, tirando verso di sé con forza mentre, guardandosi attorno, cercava qualcosa con cui bloccarla.

«merda» mormorò, nascondendo il naso nella spalla e strizzando le palpebre nel tentativo di mettere a tacere il fischio all'orecchio.
«merda merda merda».
Sbuffò sonoramente, prima di ricominciare il proprio countdown silenzioso e lasciar andare la porta con un solo rapido gesto, voltandosi per aprire la finestra e saltare giù senza pensarci più del necessario.
Da lucido, saltare dal primo piano non gli sarebbe risultato particolarmente complicato: l'aveva già fatto decine di altre volte.
In quella circostanza, tuttavia, non poté far altro che lasciarsi cadere giù senza strategia, finendo per atterrare rovinosamente su un fianco.
Trattenne un'imprecazione a fior di labbra, riprendendo la sua corsa con la mano libera pressata sul bacino dolorante, l'altra a stringere ancora il cellulare.
S'infilò nel primo vicolo disponibile, il dolore a martellargli sempre più insistentemente le tempie, a insinuarglisi tra le ossa senza alcuna pietà.
Continuò a correre ancora per qualche metro, fino a che non sentì le gambe cedere.
Si accasciò contro la prima parete disponibile, stringendo i denti talmente forte da sentire il sapore ferroso del sangue sul palato.

«sto bene» rassicurò il telefono, ancor di più sé stesso «tutto intero» aggiunse, boccheggiando per riprendere fiato. Cercò di rilassare le spalle, risollevando il capo con estrema lentezza.

Poi, ebbe il tempo di accorgersi di poche cose: il metallo freddo dritto in mezzo agli occhi, un paio di iridi chiare a fissarlo con scherno, labbra sottili intente a muoversi come volessero dire qualcosa che lui non poteva sentire.
Poi più niente.

«Park?»

reset me | before it falls apartDove le storie prendono vita. Scoprilo ora