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«park?» 

Aprì gli occhi con uno scatto, pentendosene l'istante successivo non soltanto per la luce a pizzicargli le retine, poco preparate a quell'improvvisa incursione, ma anche per il brusco movimento che gli fece sbattere la testa contro la parete dietro di sé.
Sollevò una mano per massaggiarsi il capo, lasciando che un'imprecazione gli scivolasse sulla lingua in un sussurro a malapena udibile.
Sbatté le palpebre una, due volte, prima di riuscire a mettere a fuoco i contorni della sua stanza, avvolta nell'atmosfera calda del primo pomeriggio. Abbassò poi lo sguardo sul portatile, poggiato sulle sue gambe incrociate esattamente dove l'aveva lasciato un attimo prima d'addormentarsi.
Tutto, in effetti, pareva identico a qualche minuto prima, quando aveva lasciato che la stanchezza dell'ennesima notte insonne prendesse il sopravvento sul suo senso di responsabilità.
Eppure c'era qualcosa di diverso.
Non avrebbe saputo dire in concreto cosa Mills, che scelse di attribuire quella sensazione al sogno che l'aveva bruscamente riportato alla realtà, ma aveva il netto sentore che qualcosa gli stesse realmente sfuggendo.

Invero, quell'impressione non era per lui cosa nuova, abituato a percepire fin troppo spesso un certo disagio, preludio di una sola domanda, nello specifico cos'è che non va in me, a cui seguiva sempre la stessa risposta: tutto.
Quella che per anni aveva vissuto come una tragedia, alla fine si era trasformata in nient'altro che l'ennesima constatazione, la stessa che lo aveva portato a concludere che, semplicemente, lui non fosse fatto per stare al mondo. Non era colpa di nessuno, era ovvio, ma mentre gli altri parevano saper cavalcare l'onda con assoluta naturalezza, lui continuava a restare indietro, a non capire.
Tutto era troppo: troppo spaventoso, troppo complicato, troppo assurdo anche soltanto da immaginare, e lui non era abbastanza per quel terrificante troppo.
Se per un po' aveva provato con tutte le sue forze a nuotare controcorrente e restare al passo, ad un certo punto si era arreso alla sola ed unica evidenza, e cioè che non era tagliato per quella vita. Sarebbe stato sciocco provare a fingere di essere come tutti gli altri, non quando sapeva perfettamente di essere diverso. Forse crescendo si era perso per strada qualcosa o forse, più fatalmente, quel qualcosa era andato andato storto già nell'istante in cui era venuto al mondo.
Comunque fosse, a quel senso di inadeguatezza Mills si era abituato da un pezzo, tanto che non avrebbe notato alcunché se, in effetti, non ci fosse stato niente di nuovo da notare - eppure, più si guardava attorno, e più aveva l'impressione che il verde delle tende non fosse verde come le altre volte, che gli oggetti sulla scrivania non fossero esattamente della loro solita forma, che il calore della stanza fosse insolitamente soffocante.
E c'era silenzio, troppo silenzio, persino per una casa vuota.
Aveva sempre fatto quel rumore la sua stanza?

Abbassò lo sguardo sulle proprie mani, quasi a voler verificare che fossero sempre le stesse, e fu a quel punto che se ne accorse; due parole, scritte frettolosamente con quella che pareva in tutto e per tutto la sua scrittura, incise proprio sul palmo sinistro: "non uscire".
Non soltanto non ricordava d'averle mai scritte ma, dopo aver chiuso e riaperto gli occhi per poterle rimettere a fuoco, erano già sparite.
Rimare immobile per qualche istante, gli occhi fissi sulla pelle ora scevra d'ogni traccia d'inchiostro, esitando nell'allungare un polpastrello e sfiorare la carne immacolata, col chiaro intento di trovarvi un indizio a suggerirgli se quelle due parole fossero mai esistite davvero.
Ma non trovò nulla.
Nella migliore delle ipotesi, era colpa del recente risveglio dopo settimane di scarso riposo. Nella peggiore, stava impazzendo.
Non si sentiva di escludere nessuna delle due opzioni, né di prenderne in considerazione una in particolare, ma di una cosa era del tutto certo: aveva decisamente bisogno di dormire.
Abbassò lo schermo del portatile ancora sulle sue gambe, abbandonando a sé stessa la relazione su cui avrebbe dovuto lavorare già diverso tempo prima ma che, tra una cosa e l'altra, aveva finito per procrastinare sino a trovarsi tragicamente in ritardo con la consegna. Mai una volta che fosse in grado di rispettare una deadline: dove stava la novità?

Proprio quando credeva di essere sul punto di ritrovare un quasi-equilibrio, un senso a quello smarrimento da cui ancora non sentiva d'essere uscito del tutto, la suoneria del suo cellulare ruppe la stasi facendolo trasalire.
Per un attimo, solo per un attimo, Mills si ritrovò a trattenere il respiro, col cuore in gola e la stessa ansia che aveva permeato il suo sogno divenuta tangibile, trasformata in realtà dal semplice suono di quel dannatissimo telefono.
«deficiente» soffiò, scuotendo il capo per scacciarsi di dosso ogni lascito di quella sciocca paranoia. Aveva ventitré anni, ed ancora si faceva impressionare dai brutti sogni.
Allungò una mano verso il comodino, cercando a tentoni il cellulare tra le tazze di caffè lasciate a marcire per giorni, la montagna di libri ancora da leggere ed i mozziconi di sigaretta sfuggiti al posacenere.
«pronto?» mormorò infine con la voce ancora impastata dal sonno.
Il cellulare, incastrato fra la spalla e l'orecchio, continuò a squillare imperterrito.
«ma che...» lo afferrò per dare un'occhiata allo schermo, rendendosi conto solo a quel punto di non aver mai accettato la chiamata «ah» soffiò, raddrizzando la schiena sul cuscino prima di decidersi a rispondere davvero.

«mills?»
La voce dall'altro capo del telefono sembrava quella di Renée, ma non ci avrebbe messo del tutto la mano sul fuoco.
La voce di Renée, in effetti, non era tremava mai.
Era quel genere di persona che, malgrado l'insicurezza e la costante sensazione d'essere sempre in qualche modo fuori posto, trasmetteva la sicurezza di chi, combattendo da sempre, possedeva oramai una certa esperienza in termini di sopravvivenza.
Forse era quella la ragione per cui a Mills piaceva così tanto.
Al contrario di lui, lei non si era mai arresa, ed aveva un che di rassicurante sapere di averla affianco, pronta a spronarlo ad alzarsi un'altra volta. Invero: il più delle volte lo faceva prendendolo a calci, ma in fondo a lui andava bene così.
Eppure, quella volta c'era qualcosa nel modo in cui Iréne aveva pronunciato il suo nome, l'ennesima conferma di quanto qualcosa dovesse necessariamente essere cambiato da quando si era addormentato a quando aveva riaperto gli occhi poco prima.

«va tutto bene?» non poté fare a meno di chiedere, perché conosceva ogni sfumatura del suo nome tra le labbra di Renée, ogni più lieve inflessione, ed era diversa. Sembrava esitante.
«sì... è che devo chiederti una cosa» ed eccola l'ennesima stranezza: Iréne non chiedeva mai. Non se non era strettamente necessario almeno, preferendo di gran lunga risolvere i problemi da sé piuttosto che mostrarsi fragile.
Mills, in effetti, era una delle poche persone con cui si fosse mai concessa di lasciarsi andare, ma erano rare le volte in cui avesse scelto di farlo davvero. Di solito non aveva molta scelta: lasciarsi divorare, o cedere alla tentazione di sputare fuori quei piccoli sassolini che, a lungo ignorati, finivano per diventare macigni nel suo stomaco, troppo ingombranti da poter semplicemente ignorare.

«spara».
Lo sapeva già che, qualunque cosa volesse chiedergli Iréne, non gli sarebbe piaciuta affatto. L'aveva più o meno indirettamente rivelato lei stessa, con quell'insolita titubanza in netto contrasto col suo abituale essere brutalmente diretta. Ma Mills sapeva anche che, in ogni caso, non c'era neanche una possibilità che lui si tirasse indietro. Non lo aveva mai fatto, neanche una volta, malgrado non avesse mai compreso in che modo la sua presenza sarebbe mai potuta risultare utile a qualcuno. Il punto era che le voleva bene, e quello bastava.
«devo andare in un posto» e ho paura ad andare da sola. Non lo aveva detto, ma suonò più che implicito alle orecchie di Mills.

Socchiuse le palpebre, le riaprì, posò lo sguardo sulla libreria di fronte al letto. Fece scivolare le iridi chiare su ogni singolo volume, su ogni più piccolo oggetto, alla ricerca dell'imperfezione a rendere tutto così identico eppure diverso. Non ne trovò neanche una, eppure ogni cosa gli pareva tremendamente sbagliata.

Guardò ancora, un'ultima volta, il palmo sinistro su cui quel 'non uscire' non era mai stato davvero impresso, ma che nella sua testa ancora risultava assurdamente reale.
Invero, poteva anche essere stato un segno del destino o, ancora meglio, un messaggio dal suo inconscio a suggerirgli d'evitare di alzarsi dal suo letto e continuare con quel dannato progetto da consegnare. 

Ma si era arreso Mills, lo aveva fatto ormai da tempo, perciò disse l'unica cosa che avesse senso dire: «okay», autoproclamando così la sua stessa condanna «dove?».

reset me | before it falls apartDove le storie prendono vita. Scoprilo ora