4. Ci rivediamo presto, tra almeno altri cinque anni

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2017

Quand'ero piccola – avrò avuto circa sei anni, almeno questo è quello che dice mamma – mi sono beccata la varicella. Non è un'esperienza che ricordo con chiarezza in realtà, ma due cose non riesco proprio a dimenticare: il prurito incoercibile, disumano, quello che ti viene da scorticarti, ma non puoi, ché poi ti rimangono i segni e le enormi pastiglie bianche e ovali che ero costretta a ingurgitare più volte al giorno.

Anni dopo, nel pieno del periodo terrificante dedicato alla scrittura della tesi della specialistica, ho provato uno dei dolori peggiori di tutta la mia vita: a livello del costato a destra, altezza reggiseno, una serie di bollicine e un bruciore, come di scosse elettriche – un'intera centralina impazzita sulla pelle – che inviava scariche continue e persistenti che mi stavano per mandare al manicomio.
All'inizio ho pensato che fosse la puntura di un'insetto – ero abituata a dormire con la finestra aperta causa assenza di condizionatore e un giugno particolarmente torrido – , ma alla fine, dopo alcuni giorni di sofferenza atroce e l'inutilità totale dell'applicazione di ogni pomata che avessi nei cassetti del bagno, mi sono rassegnata a farmi vedere da un medico.

Era lui, il responsabile: il virus della varicella di quand'ero bambina, lo stronzo, che aveva deciso di rimanere latente nel mio organismo, comodamente albergato nei gangli del mio sistema nervoso, e di farsi vivo in quel momento, complice il caldo e lo stress. E le cattive notizie non erano mica finite lì.
Perché mica esiste modo di sfrattare lo stronzo di cui sopra: quello resta lì, vitto e alloggio aggratis – tranquillo, ché a tutte le spese pensa zia Bea – e può farsi vivo come gli pare e piace. Quando ha un attimo di noia, in TV non trasmettono niente di bello e ha finito tutti i libri da leggere, quello può tranquillamente decidere di farsi una passeggiata e tornare in superficie, regalandomi un nuovo round di scosse elettriche.

Tiro le labbra in una smorfia, mentre al solo pensiero con una mano gratto la zona interessata e con l'altra tocco ferro prima e strizzo una tetta poi, ché non si sa mai, in questi casi mica il troppo stroppia.

Il pensiero del virus mi torna in mente prepotente mentre penso che esistono, nella vita di ognuno di noi, dei momenti-varicella. Sono apparentemente insignificanti, magari lì per lì non ci dai peso, ti sembra un evento di poco conto, un attimo come un altro; tempo di distrarti un attimo e quello ti si incastra addosso, neanche te ne accorgi.
Si infila in una piega, sotto le unghie, tra le ciglia, ovunque trovi posto; poi riesce a trovare una via privilegiata verso il torace, una superstrada lastricata di ricordi e interrotta da un infinito numero di caselli di rimpianti; si stanzia su un arteria importante e non ti molla più. Te ne dimentichi, anche per lui alloggio garantito e vitto a base di smozzichi e bocconi di vita, però basta un nulla che quello – tac! – ritorna a farsi vivo.

Ti rosicchia come un tarlo, ti fa soffrire come un cane – ondate di scosse elettriche di nostalgia misto rimorso misto rifiuto che ti investono la pelle, si ritirano e ritornano, ciclicamente, come il mare – e poi, dopo un po', se ne va quieto e mogio ad annidarsi nel suo angolino, preparandosi per l'attacco successivo.

Ognuno ha il suo momento così.

E ci penso adesso, dopo una notte insonne, una di quelle notti di occhiaie pesanti e occhi gonfi e chiusi – con le scie delle lacrime seccate che attraversano il viso come sentieri di campagna. Una di quelle notti di sudore a fiotti, lenzuola sgualcite strette tra i pugni e federe grinzate strette tra i denti, che ti impedisci di gridare un po' per non svegliare i condòmini e un po' per non svegliare la dignità: ché forse finché soffri in silenzio il giorno dopo te ne scordi, ché forse se non impregni le mura di urla quelle, bianche e asettiche, al sorgere del sole non ti sbattono in faccia la loro commiserazione.

Tu sei - Seconda parte (La fenice)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora