La figlia del conte Savillo

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C'era una volta (questa ce la racconta fra Domenico Cavalca, nelle sue vite dei Santi Padri) un conte molto ricco, di sangue reale, signore di città e castelli; che teneva corte, con molti cavalieri e moglie bellissima, ma non aveva figlioli. Un giorno, più triste del solito, pensò di ricorrere alle preghiere di un santo monaco, abate di un monastero vicino al deserto. E, giunto che egli fu, tanto pianse e pregò che l'Abate gli disse: "Conte, andatevene con la pace di Dio! E io pregherò il Signore che vi dia modo di salvare l'anima vostra". E il conte Savillo di Babilonia, pacificato, se n'andò con Dio; e gli nacque la più bella bambina che mai fosse al mondo. Fuor di sé dalla gioia, portò tosto all'Abate la sua figliuola, e l'Abate la battezzò diventando compare del conte; e le pose nome Eufrosina.

All'età di quindici anni Eufrosina era la vergine più bella e più saggia dell'Oriente, così che i sultani dell'Asia e i Re della Grecia l'ambivano sposa. Vennero difatti i loro ambasciatori a presentar la domanda al conte Savillo. Il conte chiamo Eufrosina e le manifestò ogni cosa. "Padre mio," esclamò la fanciulla desolata "io credevo che mi amaste di più. Perché avete tanta fretta di separarmi da voi?".

"Non dir così, figliuola! Io t'amo come la pupilla degli occhi miei e non ti cerco marito che per farti felice".

"Allora lasciate a me la scelta".

"Sì, te la concedo, purché tu scelga un re incoronato".

"Ve lo assicuro: il più grande sarà il mio sposo".

"Ma dimmi, anima mia, quando?".

"Entro due mesi. Siete contento, dolce mio padre?".

"Sì" fece il padre raggiante. Ma non erano passati otto giorni che Eufrosina, un bel mattino si alzò prima dell'alba, si vestì da uomo, si tagliò i capelli, si tirò sulla faccia un cappuccio, si imbrunì il mento, infilò i guanti e, silenziosa e non vista, uscì. Chiese, in greco, ad un viandante la via del Monastero, entrò in chiesa, si prostrò dinanzi all'altare, e con tutta l'anima pregò per lungo tempo Iddio: che custodisse la sua verginità e le desse grazia di entrare in quel monastero e di rimanervi in santa vita, fino alla morte. Pensava che in un monastero di donne non sarebbe stata al sicuro, perché il potente suo padre l'avrebbe scovata e ricondotta nel mondo. Vide poi passare una lunga fila di monaci e chiese loro dell'Abate. "Sono io l'Abate. Che desideri benedetto figliuolo?".

"Fuggire il mondo, santissimo padre! E vi prego, in nome di Dio, di accogliermi in questa santa religione, perché io voglio salvar l'anima mia". L'Abate radunò i monaci a capitolo, discusse il caso, poi fece venire il giovane postulante e così parlò: "Ascolta, figliuol mio benedetto. Noi siamo ben contenti di farti piacere, ma dubitiamo assai che tu possa sostenere questa nostra regola; che è rigida ed aspra anche per noi. Pensaci: Noi non mangiamo mai né carne, né cacio, né uova e non beviamo che acqua; non abbiamo per letto che poca paglia, e facciamo silenzio per sei dì la settimana. Come potrai fare tal vita tu, figliuolo, giovine e tenero e delicato, come sei?".

"È proprio quel che io cerco, Abate mio!" rispose... il giovine.

"Ma pensa... la tua età!". L'Abate infatti lo credeva un paggetto di appena quindici anni.

"Se io fossi più vecchio, me ne andrei nell'eremo; ond'io vi prego, Abate santissimo, d'accogliermi qui e di concedermi una cella separata e sola, ch'io, se volete, non vedrò mai più persona viva". L'Abate, ammirato di così virili propositi in un cuore così infantile, finì per accondiscendere a quelle preghiere. Chiamò il giovinetto col nome di Smeraldo; gli assegnò una cella isolata, con una finestruzza, donde il fratello dispensiere poteva passare il cibo quotidiano; chiuse la porta a chiave, e: "Sia lodato Gesù Cristo".

Ma il conte Savillo, quando s'accorse della scomparsa della sua diletta figliuola, disperato a morte, andò per più giorni errando come un pazzo per il castello e gridando: "Eufrosina! Eufrosina! amor mio, dove sei? rispondimi". E nessuno rispondeva. La moglie sua, per tanto strazio, si ammalò e morì. I giorni passavano, l'uno dopo l'altro, ed Eufrosina non tornava. Ormai non c'era più persona che potesse consolare il povero padre. Il conte ritornò, piangendo, dall'Abate, gli raccontò delle sue vane speranze e gli chiese infine, per amor di Dio, un posticino nel convento in attesa della morte. Ma faceva così risonare le silenziose mura del monastero dei suoi lamenti, che essi giunsero fino a turbar la pace a Fra Smeraldo. Tocco di compassione, un giorno Smeraldo chiese al fratello dispensiere: "Chi è mai colui, che io odo piangere pel monastero, dì e notte?". E il fraticello disse quanto sapeva. "Va', digli che venga a me" ordinò Smeraldo. Il conte venne, si pose a sedere a piè della finestrella, e disse: "Dio vi dia pace, fratello".

"Dio adempia i vostri voti," rispose Smeraldo "e vi conceda il Paradiso".

"E la mia figliuola?".

"Dio ve la diede e Dio ve la tolse, Messere! Pensate al santo Giobbe e lodate il Signore".

"Ma il cuore mi scoppia dallo strazio...".

"Ed io vi dico: Non lamentatevi. Io so che Iddio la chiamò al suo servizio in luogo santo e che le darà corona in Paradiso".

"Come fate a saperlo?".

"Per grazia di Dio, io l'ho veduta la vostra figliuola e so che è in luogo sicuro". E il conte, senza neanche sospettare che chi gli aveva parlato era proprio la sua Eufrosina, corse a dire la sua gioia all'Abate. "Credo veramente" commentò costui "che Fra Smeraldo sia un santo".

Provò allora il conte a viversene nel suo castello; ma in quella casa, senza la luce della sua Eufrosina, non trovava pace. Tornò al monastero e chiese la più grande grazia che mai vi fosse per lui. "Lasciatemi," chiese all'Abate "lasciatemi stare un'ora con frate Smeraldo perché io non trovo consolazione che nelle sante sue parole". L'Abate chiamò il frate e gli disse: "Accompagna il conte mio compare da Fra Smeraldo e digli che l'Abate gli ordina in virtù di santa obbedienza, di far quanto può per consolarlo".

Ma un dì, purtroppo, frate Smeraldo cadde ammalato e non poté portarsi più alla finestrina per consolare il conte. "O Abate compar mio" pregò allora il conte lacrimando "sappiate che, se mi manca la parola di quel vostro santo fraticello io ne morrò certamente". Il buon Abate non poté far altro che dargli licenza di entrare nella cella di Fra Smeraldo. Fra Smeraldo, che giaceva sulla paglia, gravemente infermo, si coprì il volto col cappuccio e disse queste parole: "Conte, voi stanotte resterete qui con me, ed avrete notizie della vostra figliuola". E il conte, con le lacrime agli occhi si inginocchiò. "O dolce mia consolazione!" disse tosto il conte. "Parlatemi, vi prego, della mia figliuola".

"Tra breve ne godrete assai" disse Smeraldo. "Intanto preghiamo". E in sante orazioni venne quasi la mezzanotte. Smeraldo, sentendosi mancare, si voltò verso il padre e disse così: "Il Signore onnipotente ha esaudito i miei voti, e nella sua misericordia, m'ha condotto a buon porto. Sono presso alla vita eterna ed all'eterna corona, perché, non per mio merito ma per grazia di Dio, ho potuto sfuggire ai lacci del demonio ed ai pericoli del mondo. Io non ho ricchezze da lasciare, ma voi donerete le vostre a questo monastero, perché i santi monaci preghino per Dio per voi, per mia madre e per me. Confortatevi, padre mio: Eufrosina vostra vola alle nozze dello sposo celeste. Son io!... Componetemi nella cassa, vi prego, con le vostre mani; ed ora...". Eufrosina era passata in pace. Il padre gettò un grido acutissimo e cadde tramortito sul corpo della figlia.



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