Giglio e fiamma

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Aveva trentatré anni, in quella domenica innanzi all'Ascensione, quando esausta, spirò, a l'ora di sesta, appunto nell'ora del transito di Gesù, mormorando ancora una volta la sua parola rossa: "Sangue!". Aveva trentatré anni, ma a guardarla, sembrava ancora una fanciulla, e, a ripensar la sua vita, le sue imprese, le sue battaglie e le sue conquiste, c'era da scrivere dei volumi. A diciassette anni, ella aveva opposto un rifiuto sia al padre Jacopo, il tintore di Fontebranda, che le voleva dare uno sposo, che all'Abate che le proponeva un convento. E fu, nel secolo, terziaria domenicana. Mentre le si offriva lo spettacolo pietoso d'una Italia straziata dall'anarchia, dalla peste e dalle guerre fratricide, dal papato divenuto straniero e trascinato nell'orbita della potenza francese dopo lo schiaffo d'Anagni, dell'impero decaduto di ogni sentimento, di ogni umanità e in gara con le compagnie di ventura a rapinare il giardino d'Europa, ella si offrì ad entrare mediatrice di Dio in mezzo alle contese umane, arcangelo di Dio per ricondurre nella sua Roma il Papa, vittima di Dio per estinguere l'odio bruciante la sua città, l'Italia e il mondo nell'incendio del suo indomabile amore e nel lago del suo sangue puro. Giglio e fiamma...

Mentre il tramonto gettava i suoi riflessi di fuoco sulle più alte torri e sulle mura merlate della sua città, anche quel giorno insanguinata, Caterina entrò in una cappellina rustica, scavata nel tufo, ove non c'era altra luce che quella irradiata dalle pupille di un'antica immagine della Madonna. S'inginocchiò, pregò, e poi, con atto risoluto, portò le forbici all'altezza della nuca e tagliò. Tutti i suoi capelli d'oro si tagliò, con mano ferma; e i capelli scivolarono giù ai suoi piedi, come un'onda di luce. Si chinò, li raccolse, se li strinse tra le palme, come si stringe la testa ricciuta di un bimbo, v'impresse un bacio lungo, e li depose lì, davanti al quadro, sotto gli occhi della Madonna. Alzò sul capo il velo e ricominciò a pregare. La ridestò il pianto accorato di un fanciullo dalla strada. S'affacciò a vedere. "Vieni qui, caro," invitò lei con grazia. "Cos'hai?". Ma il piccolo, stanco dalla corsa e dal pianto, non aveva fiato che per singhiozzare. Se lo strinse al seno, come una mamma, dentro la grotta, quando giunse gridando iroso un ragazzo con le braccia alzate, e i pugni chiusi minacciosi. "Che fai, fratello?".

"È un de' Tolomei e lo voglio ammazzare!"

"Povero fanciullo! Non vedi che fa tanto scuro? E tu vuoi crescere le tenebre? Guai, se stasera si chiuderanno le porte della città, sui cardini arrugginiti dal sangue fraterno! Vedi? ho offerta or ora la lampada d'oro alla Vergine Maria, per la pace dei miei concittadini... Donami tu, fratello, un po' di luce, che io l'accenda!". Quelle parole strane, soavi, lente come i tocchi profondi della campana vespertina chetarono il forsennato ragazzo, che guardò negli occhi la bianca fanciulla. "Ah, sei tu, Caterina? Dimmi, dimmi, dov'è la tua lampada d'oro?"

"Tu non la vedrai, mio caro, che quando mi avrai donata un po' di quella luce che tu hai, e non sai, nascosta in te"

"Non ho luce io..."

"Tutti l'abbiamo, fratello. Ce l'ha data Iddio, e misero chi, nascondendola, la spegne!"

"Dov'è?". L'altro bambino chetava il suo singulto nelle vesti di Caterina. E questa passò una carezza sul capo seminascosto, guardò tristamente i pugni ancora chiusi del più grande, e poi, con ferma dolcezza disse a costui: "Apri i tuoi pugni, lascia cadere il sasso e la violenza, stendi la tua mano aperta alla manina tremante del fratello tuo, così che si riposi sicura in te, e vedrai. Vedi? Ecco la luce! Tu, col cuore e col pugno chiuso ti macchiavi di sangue. Ed ora col cuore e con la mano aperta, effondi un dono di stelle vive". Egli aveva lasciato cadere il sasso, e dalla palma aperta s'alzò uno sciame di lucciole che trapuntò la volta scura della grotta, come un cielo stellato. "Ci vedi ora?" chiese esultando Caterina. "Vedo!" rispose il ragazzo stupito. "E la tua lampada d'oro, Caterina?". "Eccola!". E gli indicò la vaporosa massa dorata dei suoi capelli davanti alla Madonna. Ma il ragazzo non capiva. E allora Caterina scostò il suo bianco velo dal capo e apparve la sua testa bianca e diritta, come il calice di un giglio, mutilata nella matassa ondeggiante della sua chioma bionda. Ma la sua fronte non era mai apparsa così luminosa. E le lucciole scesero allora dal soffitto e, tremolando, si disposero ad arco, intorno a quel volto, come una raggera di stelle, come lanternine portate da invisibili angeli, a far d'aureola ad una santa. Avvolti in quella luce, i due fanciulli, mano stretta a mano, rientrarono nella città oscura, come due fratelli. L'Eletta, come una candela accesa nella notte, li precedeva sorridente.

Donar la luce non basta: anche del proprio sangue bisogna far dono, nel martirio, come Gesù, per lavare il sangue. E sangue invocava la Santa Senese. "A chi cresce l'amore, cresce il dolore" ella aveva scritto. Ma ancora: "Bisogna sentire fra le spine l'odore della rosa prossima ad aprirsi". L'Arbia portava ancora le tracce rosse della battaglia di Monteaperti; le sue acque non avevano spento ancora l'odio al fiorentino. Soltanto Caterina, ambasciatrice a Firenze e in Francia, aveva potuto far spalancar le porte ed il cuore senese a sentimenti cristiani di tolleranza e d'amore. Fonte Gaia, Fonte Nuova, Fonte Ovile cantavano scintillanti, s'increspano i brividi d'amore. Ma Fonte Branda, senza luci, senza riflessi, senza armonie, piange un singhiozzo perenne, in un buoi pauroso, senza alba. Là fuggono i bimbi e non vi sorridono mai i fiori. Perché un fratello, si diceva, con quell'acque aveva creduto di poter lavar il sangue del fratello assassinato. Caterina si era seduta, una notte, per ridonare a quell'acqua spenta lo scintillante riflesso di qualche stella. Tre stelle vi si specchiavano timide e vergognose, in un angolo. Caterina colse nelle sue dita bianche quel riflesso e lo ricolse ancora tante volte, quante bastarono a comporre nel mezzo della vasca una gran croce di stelle. Ogni goccia che scendeva dalle sue dita, diventava un brillante di luce. E l'arco oscuro splendeva. Ma, ecco, un grido d'aiuto scende da San Domenico e poi un vociare, un urlare confuso ed efferato. E le compare dinanzi un povero essere tutto stracciato e pesto, che invoca pietà, stretto nelle braccia di quattro o cinque sicari. "Pietà! Almeno tu, sorella!" grida l'infelice. "In nome di Dio, che fate?" chiede la bianca figura della fonte. "Il sangue si lava col sangue! È il fratello che uccise il fratello". "Sangue?" gridò allora la fanciulla come presa da un impeto di gioia strana. "Sangue? Ma io ve ne darò del sangue quanto volete. Tanto da ribattezzarvi tutti. Tanto da salvar chi spasima e chi condanna, chi giudica e chi agonizza. Ecco il sangue!". E le due mani di giglio si rituffarono nella fontana che non canta. Parve che la fanciulla, scomponendo quella sua croce luminosa, volesse afferrare nel suo piccolo pugno tutte quelle gemme, tutte le stelle. Ma quando le sue mani si tesero nell'atto dell'offerta verso il gruppo d'uomini feroci, non fu acqua, non fu luce, non furono perle, ma fu sangue che stillò, sangue purpureo, sangue di fiamma viva, in gocce di redenzione. Gli assassini guardarono attoniti, immobili, silenziosi. E videro che le stille di sangue colavano uguali, lente e pesanti, sempre; anche quando sulle bianche palme aperte non restarono che due ferite rosse, come due boccioli di rose scarlatte, nel cui centro brillasse una stella. E gli assassini dovettero piegarsi davanti al miracolo, non di quell'acqua, ma di quell'anima: il fratricida e i carnefici, il giustiziando e i giustizieri. Allora si riudì la voce argentea e musicale dell'Eletta: " Il sangue non si lava che nell'amore, e amore non è che un dono di sangue. Imparate anche voi, o fratelli, a sentire tra le spine l'odor della rosa prossima ad aprirsi. E proverete la gioia del perdono, la letizia dell'amore e il valore del sangue". Lei, Caterina Benincasa, lei sola, giglio e fiamma, poteva dire così.

E dopo tanti anni, ogni pietra, ogni monumento della severa città medioevale sembra che abbia un palpito e un cuore per la fanciulla di Fontebranda, che seppe imprigionarne e sollevarne l'animo nel sommo cielo dell'amore. Il Duomo austero ripete l'intensità mistica della sua preghiera e pare coperto ad arte della veste bianca e del manto nero della Domenicana. La torre del Mangia, che s'alza al cielo sovra il grave palazzo di città, diritta e fiera come una spada sanguinante, è l'immagine della sua volontà di fiamma, vigile su tutte le potenze dell'anima e su tutti i poteri della terra. E chi si soffermi oggi, di notte, davanti all'arco di Fontebranda, vedrebbe ancora un bagliore di giglio, uno scintillìo di stelle e un gocciolar di sangue, come nella notte lontana. Giglio e fiamma, dimenticati forse, nell'effusione del dono, dalla santa anima di giglio e dall'ardente cuore di fiamma.


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