pensieri personali, non pubblicare

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Tutta la mia vita era stata un farsa, una mascherata, un eterno carnevale sostanzialmente.

Non ho mai smesso di credere che un giorno avrei potuto togliermi quegli innumerevoli strati di tessuti, quelle numerose bugie, tutte le convenzioni a cui mi ero adeguata senza pensarci.

Avevo vissuto tutta la mia vita come se fossi la protagonista di una storia, sempre scegliendo la cosa più giusta, sempre anelando alla perfezione, mentendo a me stessa quando necessario, ho passato tutta la mia giovane vita a cercare di essere abbastanza brava per diventare un giorno felice. Ogni volta che sbagliavo qualcosa stringevo forte gli occhi, bloccavo le lacrime e mi rialzavo consapevole che ogni errore mi avrebbe allontanato dalla meta. Se un giorno volevo essere qualcuno dovevo fare come i vincenti, non potevo permettermi di essere debole se volevo essere felice da grande.

era come un mantra per me.

ogni lacrima ora sarà un sorriso domani.

andrà tutto bene, è solo un brutto momento.

andrà tutto bene.

Bene.

Ed effettivamente non potevo dire che la mia vita era così male, avevo due genitori che mi volevano bene, me la cavavo abbastanza bene a scuola e ottenevo sempre buoni risultati nello sport, insomma, tolto qualche problema da nulla che avevo avuto qui e lì, dovevo dire che la mia vita non era così male.

Non dovete pesare che non avessi amici, anzi, avevo molti amici, in qualche maniera distorta si poteva dire che io sia sempre stata abbastanza popolare ed avevo anche un ragazzo.

non potevo neppure lamentarmi del mio aspetto, i miei occhi verde salvia e i miei capelli ramati mescolati con la classica corporatura di una nuotatrice mi permettevano di evitarmi praticamente qualsiasi critica.

Il fatto era che io non ero felice.

Non so perché, e di sicuro io ci mettevo tutte le mie capacità nel cercare di esserlo, mi ripetevo sempre che se fossi stata un po' più brava a scuola, un po' più brava a nuoto, più brava nel seguire la dieta che mi aveva dato il mio nutrizionista, più brava ad ascoltare i miei amici, più brava nel dimostrare che tenevo al mio ragazzo forse sarei stata più felice.

o forse no.

era come una vocina insistente, quasi petulante che dal profondo della mia mente mi guardava con i suoi occhi tristi.

Magari non sarai mai felice, mi ripeteva ancora.

Magari stai sbagliando tutto.

Ma lei non poteva aver ragione, giusto?

Io ero destinata ad essere felice, è questo il destino di ognuno di noi, no?

Immagino, ora, il mio angelo custode, che in quel momento, fosse intento a farsi delle grosse risate.

Come potevo avere tutto ed essere contemporaneamente così triste?

Doveva essere colpa mia.

Forse c'era qualcosa che non andava in me.

Perché mi sentivo sempre sola nonostante fossi circondata da così tante persone?

Perché riuscivo a sentirmi viva solo in quei pochi minuti in cui gareggiavo, perché i miei sorrisi più veri erano quelli che facevo quando riuscivo a guadagnare il controllo di me stessa, fosse scrivendo una storia, fosse nuotando.

Perché mi sembrava di vivere sempre in una recita, perché non potevo mai comportarmi come realmente avrei voluto fare se non di nascosto o quando ero sola.

Perché le persone con cui parlavo erano così simili a burattini?

Perché dopo soli diciasette anni e mezzo di vita ero in grado di dedurre cosa sarebbe successo dopo, come si sarebbero comportate le persone intorno a me in ogni situazione.

Perché non mi era concesso dire quello che pensavo, perché non potevo fare quello che volevo, perché non potevo essere già felice, che senso aveva continuare a fingere?

Perché nessuno può essere felice?

Perché i miei coetanei hanno bisogno di ubriacarsi e drogarsi per sentirsi bene?

Perché siamo costretti a passare la nostra adolescenza a cercare disperatamente di dimostrare agli adulti di essere abbastanza per poter vivere una vita che sostanzialmente è diversa solo in apparenza?

Perché l'unico vero e proprio rito di iniziazione all'età adulta nella tribù umana è la sofferenza.

nessuno di noi se l'è meritato, non se lo meritavano i bambini uccisi nei campi di concentramento solo per il credo dei loro genitori, non se lo meritavano i ragazzi che nel 1918 sono stati mandati al fronte a combattere per una guerra che loro non comprendevano, non se lo meritavano i bambini che venivano venduti come schiavi in cambio di perline nel XVII secolo, non se lo meritavano le ragazze che venivano bruciate come streghe dopo aver provato a ribellarsi o ad aiutare un malato durante il medioevo. Non se lo meritavano i bambini spartani che venivano mandati in campi d'allenamento e allontanati dai genitori a sei anni.

Nessuno meritava di imparare la sofferenza in questo modo.

Nessuno lo merita.

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