Reparto Follia - Parte 4

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Ora ero al centro di un unico isolotto di luce ed ero separato dal resto del corridoio da quel piccolo ponte buio che la dipartita del neon aveva generato. In quella frangia buia cominciò a muoversi il carrello, che, in pochi secondi, sbatté contro la mia tibia sinistra, causandomi un acuto dolore al ginocchio, nella zona appena sottostante la rotula. Non mi ero sbagliato. Quella era la prova. Cosa avrebbe potuto far spostare quell'affare così velocemente? La pendenza no. I due ripiani, eccezion fatta per lo stetoscopio, non trasportavano nessun oggetto che si sarebbe potuto rivelare anche solo vagamente utile in quella situazione. Strinsi le palpebre e cominciai a muovere ritmicamente busto e cosce nel tentativo di far scivolare la schiena contro il muro e dare con le gambe la spinta che mi avrebbe rimesso in piedi ed avrebbe tolto le mie dannate mani da terra. Ce l'avrei anche fatta se solo polpacci e quadricipiti avessero accennato a contrarsi. Superato l'istante iniziale in cui, quasi con ilarità, fui portato a pensare che la paura mi avesse indolenzito le gambe, al secondo tentativo, un bruciore rivelatore mi scoppiò sulla fronte. Mi aveva paralizzato le gambe. Sentivo i muscoli contrarsi, combattere e riuscivo quasi a scorgerne le fibre che, come un gruppo di prigionieri, spingevano contro la barriera di pietra che era la mia pelle. Ero sicuro che, se avessi tentato di tastare un punto qualsiasi dei miei arti inferiori nel tentativo di affondarvi le dita, sarei rimasto spiacevolmente sorpreso dall'insolita tonicità delle mie gambe. Le lacrime ripresero a venir giù copiose, imbrattandomi l'ispida barba ed infuocandomi il volto, che era, anche se non potevo vedermi, il ritratto del terrore che stavo vivendo in quei maledetti istanti. Il carrello mi ostruiva la visuale e nemmeno spostando il collo a destra o sinistra ero in grado di ritagliarmi una visuale soddisfacente sulla parte opposta del corridoio. Aveva calcolato tutto sin nei minimi dettagli e mi aveva tolto sia la possibilità di fuggire che quella di spaccargli la faccia. Sempre se una faccia ce l'aveva. "Fight or flight" per me non valeva più, tanto che mi si affacciò nella mente una terza versione di questo celebre detto che calzava a pennello per me: "Fight or flight or stay and watch". Mi proruppe dal petto una risata isterica, dovuta non tanto all'ironia che mi ero costruito, quanto alla follia e al dolore che andavano ad aggiungersi alla paura e al fatto di aver capito a quale truce destino stavo andando incontro. Le mie urla sguaiate aumentarono d'intensità quando sentii qualcosa rompersi a livello del polso destro. Poi fu la volta di quello sinistro. Ero saturo. Ero carico di angoscia, dolore, tensione e di una paura che non avevo mai provato prima e che mai augurerei di vivere a qualcuno. Una paura ancestrale, di quelle che ti prendono il cuore e te lo fanno sprofondare in un oblio inimmaginabile e senza fine, che trascina con se anche qualsiasi altra forma di razionalità residua e ti cambia per sempre. Una paura simile a quella che provano i bambini quando si tirano le coperte fin sopra al mento per paura che il mostro che sono sicuri dimori qualche centimetro più in basso delle loro teste venga fuori per portarli via per sempre. A me la coperta era stata strappata ed io ero talmente indifeso e talmente stanco che mi lasciai vincere. Aprii la bocca e spostai la testa a destra, dove per qualche istante ebbi modo di vedere le condizioni in cui era ridotta la mano: completamente rossa ed immersa in un lago rosso, penzolava senza vita all'avambraccio che stava continuando imperterrito la sua opera di distruzione. Non riuscii a vedere molto altro, dal momento che i conati che stavo avendo da qualche minuto si trasformarono in vomito, costringendomi a serrare le palpebre e a sentir uscire chissà cosa dal mio corpo mentre scivolavo nell'oscurità più totale. L'insieme di forze con le quali mi ero trovato a combattere mi aveva vinto. Ero crollato.

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