Capitolo Primo.

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Faceva caldo, non molto visto il fine di stagione, ma era ancora caldo. Per questo mi decisi a scegliere qualcosa di smanicato.
In più, l'ansia di quel servizio fotografico incombeva su di me nemmeno fosse stato uno degli esami più importanti della mia vita. No, effettivamente non lo era. Si trattava semplicemente di uno dei primi servizi che finalmente avevo ottenuto con la mia agenzia.
Ebbene sì, fotografa di venticinque anni, approdata decisamente a tarda età in quel campo. Molti dei miei colleghi erano più giovani di me, ma la cosa non mi spaventava.
Avevo seguito uno dei corsi più rinomati in tutta la Louisiana, nella mia modesta Covington.
Il fatto era che quell'ambito lo avevo sempre sognato; da sempre avevo amato l'idea di poter imprimere paesaggi o soggetti umani in quell'ottica in cui nessuno poteva vederli. Ero cresciuta con l'idea di poter, prima o poi, riuscire ad affermare me stessa in quel lato artistico che tanto amavo. Solo che, purtroppo, non era uno di quei mestieri con i quali si riesciusse a campare. Quindi, all'età di diciotto anni, iniziai a lavorare nella ristorazione. In molti credevano che fosse un lavoro da "poveri", da persone che non sanno come arrivare a fine mese e preferiscono spaccarsi in mille pezzi pur di avere qualche soldino da parte. Ed effettivamente fu un po' quello che accadde anche a me, nonostante la ristorazione mi piacesse da sempre: potevo starmene a contatto con i clienti capendo quanto fosse importante il mio lavoro per riuscire a farli divertire, o a dargli una serata romantica, oppure riuscire a fargli capire quanto una buona dose di bourbon potesse allietare i loro animi persi dopo una faticosa giornata di lavoro o una delusione di qual si voglia specie.
È così che ho iniziato a racimolare un po' di guadagni.
Una parte andavano nelle spese per la casa, una parte la spendevo per gli amici, un'altra parte ancora avevo deciso di investirla in viaggi d'esplorazione, mentre l'ultimo quarto della mia paga avevo deciso di conservarlo in un fondo dal quale avrei potuto attingere in un momento di particolare bisogno nel caso avessi avuto qualche idea folle per la testa.

Innanzitutto, i miei "viaggi d'esplorazione" consistevano sostanzialmente in relativamente brevi tratte in treno. Salivo e, dal nulla, sceglievo di scendere ad una fermata a caso del tragitto.
E così scoprii quel lato di me un pochino intraprendente, scostante dalla mia mania di programmare qualsiasi cosa che mi riguardasse.
Semplicemente scendevo dal treno e iniziavo a passeggiare ripetendomi, passo dopo passo, che da qualche parte sarei pur finita dopo un po'.

La mia fedele compagna di viaggio non era una persona, bensì la mia macchina fotografica. Avevo sempre amato poter catturare tutto ciò che mi circondava unicamente dal mio punto di vista.
Ci sono una miriade di cose che si possono catturare ed imprimere da qualche parte, che sia la propria memoria, un rullino analogico o una scheda esterna di una digitale.
La vita intorno a me sembrava assumere completamente un'altra forma quando l'analizzavo da sola. 
Dell'albero che scuoteva le fronde alla lieve brezza o, piuttosto, al vento forte; o ancora le famiglie a spasso con i bimbi nel parco della cittadina presa di mira per la giornata.
Più bello ancora era osservare i solitari come me: in loro ritrovavo sempre quel senso di pace e comprensione inespressi. Bastava semplicemente scambiarsi uno sguardo per comprendere quanto tutti navigassimo nello stesso mare, pur essendo a bordo di barche differenti.

Oltre a ciò, da dire su di me c'era il fatto che non avevo mai terminato gli studi. Uscita dal liceo decisi che la mia strada era quella della praticità, del lavoro, della fatica e del portarmi il pane a casa da sola, senza più dipendere dalle gonnelle di mamma e papà.
Due persone straordinarie che, però, dovevano badare alle spese ingenti per mantenere la casa e due figli.
Per questo decisi di andarmene.

Andai a vivere da sola all'età di vent'anni. Avevo un piccolo appartamento di pochi vani: un salotto, un angolo cottura che si affacciava su di esso, una camera da letto ed un bagno piccolo, senza vasca, con una modesta doccia. Fortunatamente lo trovai arredato e, per la modica cifra di trecento dollari al mese, riuscii ad abitarci per un annetto buono.

I problemi nacquero quando mi licenziarono.
Ebbene sì, persi il lavoro al baretto della stazione. Era lì che lavoravo, in un modestissimo baretto popolato da vecchietti che esigevano cappuccino e brioches alla mattina e di turisti, viaggiatori e pendolari che mi riempivano di richieste di informazioni consumando pochi dollari giusto per una bottiglietta d'acqua o per un caffè.
Tanti volti e nessuno realmente riconoscibile.
Alla fine il mio contratto scadde dopo solo un anno di impiego. Certo, sapevo che quel "baretto della stazione" non sarebbe stata la mia tappa definitiva, ma nemmeno che sarebbe durato così poco.

Fu allora che presi casa con il mio fratellone.
Paul era sempre stato un ragazzo d'oro: determinato da far invidia a chiunque, con una media dei voti decisamente nella media e quarterback nella squadra di basket della scuola.
Insomma, sorella di un Dio, mito dei genitori e la reincarnazione del figlio perfetto.
Quando decise di trasferirsi al college prese un appartamento tutto per sé, onestamente fin grande per viverci da solo.
Per questo mi chiese di unirmi a lui quando persi il mio lavoro e riuscii a pagare l'affitto per i due mesi successivi che mancavano alla scadenza del contratto d'affitto.
Senza di lui non so come ce l'avrei mai fatta ad andare avanti. Ero sempre stata troppo orgogliosa per tornare a piangere dai miei genitori.
Per questo avrei dovuto essergli per sempre grata e, dovevo ammetterlo, abitare con il proprio fratello era davvero piacevole.

Fu proprio mio fratello a tirarmi giù dal letto, quella mattina, per convincermi a prendere parte a quell' evento programmato in agenda già da svariato tempo.
Faceva sufficientemente caldo, appunto, da dover scegliere qualcosa di smanicato.
Non avevo mai amato sufficiente il mio fisico da mostrarlo eccessivamente, ma quella sorta di camicetta azzurro carta da zucchero con le bretelle dotate di piccoli volant, sembrava la cosa più fresca del mio guardaroba. Vi abbinai un semplice paio di jeans bianchi ed un paio di mocassini, anch'essi bianchi.
Di solito non vestivo in quella maniera, ero sempre stata più da colori scuri, ma era la mia tenuta da matrimonio: chiaro per non assorbire troppo la luce del sole e per amalgamarmi alle tonalità degli abiti degli invitati ma, al contempo, tanto comodi per essere libera di muovermi a mio piacimento. Ah, beh, non ero nemmeno tipo da mocassini ovviamente, ma faceva parte del reparto "occasioni speciali" del mio armadio da lavoro.

Scesi in cucina, al piano inferiore, trovando mio fratello seduto alla penisola con una tazza di latte e del caffè ancora fumante davanti al naso.
«Buongiorno, ti vedo sveglio e pimpante fratellino!» sghignazzando poi, vedendo il suo sguardo addormentato. Legai i miei lunghi capelli rossi e mossi in una coda alta e mi sedetti con lui a fare colazione.
«Quindi, un altro matrimonio?» chiese Paul. «Già, e stavolta sono una coppia di ricconi che assolutamente detesto. Ci sarà sfarzo e gente snob ovunque.» risposi arricciando la mia espressione per esprimere repulsione.

Dopo quel breve dialogo, proseguito in semplici direttive inerenti all'organizzazione delle faccende da sbrigare in giornata, mi diressi all'esterno munita della mia grossa borsa con l'attrezzatura e salii a bordo della mia auto.
La mia mini cooper rossa anni ottanta ed un po' sgangherata, mi stava aspettando dall'altro capo della strada.
A parte le revisioni frequenti, era un piccolo bolide. L'amavo, soprattutto perché era rimasta in garage per almeno vent'anni, prima che riuscissi a farla riparare da Jeremy, il mio migliore amico e meccanico esperto. Era di mio papà quand'era più giovane e da bambina mi piaceva sedermi alla guida facendo finta di guidare, con lui che mi assecondava imitando il suono del motore e mamma che, seduta sul sedile posteriore, mi pregava di andare più piano.

Vi salii e mi diressi alla villa dell'evento in programma.
L'entusiasmo era sotto zero, il caldo imponente mi faceva venir voglia di tornare nella mia cameretta fresca e il pubblico che mi attendeva non sembrava essere dei più semplici.
Ah, ciliegina sulla torta: avevo per contratto solo tre delle probabili sei ore tra quelle che avrei passato a quell'assurda manifestazione di sfarzo ed egocentrismo.
Non vedevo l'ora di cominciare.











Buonasera lettori e lettrici!
È il primo capitolo di questa fan fiction, dopo anni e anni che non ne scrivevo più una, e senza mai aver toccato l'argomento Ian comunque.
Spero che il racconto vi piaccia, spero di farvi quantomeno compagnia.
Non scrivo per farmi notare, a volte posso sembrare banale, lo so, ma scrivo solamente per mettere su "carta" le idee che mi frullano in testa e perché mi diverto un sacco ad immaginarmi storie e vite che non mi appartengono.
Ho anche immaginato i volti corrispondenti ad alcuni personaggi, se vorrete allegherò i nomi di chi ho scelto.
Detto ciò, vi auguro una buona lettura sperando che il vostro feedback arrivi presto!

Un bacio.

Imperituro.   ||I.S.||   Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora