Capitolo Ventottesimo.

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7 dicembre.

Un altro giorno perso, l'ennesima notte distrutta da incubi, il costante senso di incompletezza ed insoddisfazione, quella costante assenza che in alcun modo riuscivo a colmare.
Anastasia mi mancava come l'aria: mi mancava il suo profumo in giro per casa, vederla preparare il caffè, impazzire per scegliere l'abito giusto per uno dei miei dannati eventi; mi mancava attendere il bagno alla mattina, il rumore dell'acqua della doccia o del phon. Mi mancava la sua presenza in giardino, alla sera, con una tazza di tisana fumante, le sue sigarette, ed una coperta sulle spalle. Mi mancava baciarla, fantasticare insieme, fare i turni per chi dovesse lavare i piatti o battibeccare sulla pizza da ordinare o sul film da guardare. Mi mancava perfino litigare con lei.
L'aria che scorreva nei miei polmoni aveva un sapore diverso, io mi sentivo diverso. Mi sentivo annebbiato, confuso, perso, consunto.
Era passato più di un mese da quel dannato giorno, il giorno in cui la persi. Ero andato a cercarla, ma dopo l'ultima volta decise di non aprirmi più la porta. L'unica persona ancora legata direttamente a lei con la quale scambiavo qualche parola ogni tanto, era suo fratello Paul. Anche lui ce l'aveva con me, ma era più ragionevole. Aveva acconsentito a rivelarmi come stesse sua sorella, come vivesse e cosa facesse, come riuscisse ad andare avanti. A tratti sembrava parteggiare per me, ma vedendo che ad ogni mio tentativo lei peggiorava, mi suggeriva di demordere. E con fatica acconsentivo.

Erano le sette del mattino ed io ero già sveglio. Avevo dormito ben poco, a dire la verità. Fissavo il soffitto, restando immobile sotto al piumone, ascoltando il rumore della pioggia che si abbatteva furiosa sul vetro della portafinestra davanti a me. Avvertivo dentro di me una sorta di rassegnazione ma, nonostante tutto, ero rassegnato anche al fatto di non riuscire a dimenticarla, non riuscire ad accettare di averla persa. Non avevo più carte da giocare, più possibilità di farla ricredere, non potevo più conquistarla perché per lei ero stato una delusione troppo grande. Ma non riuscivo nemmeno lontanamente a smettere di amarla.

Restai sveglio, ecco perché intorno alle otto mi alzai. Mi diressi in cucina per preparare del caffè, l'unica cosa che ormai mi concedevo per colazione, la più essenziale, fondamentalmente. E così cominciavo un'altra giornata esattamente uguale alla precedente e che sarebbe stata sicuramente la fotocopia di quella successiva.
Il lavoro procedeva, ovviamente, ma in molti mi ponevano domande continue su come stessi e sul dove avessi la testa in certi momenti di particolare distrazione. Ogni tanto io stesso mi chiedevo come potessi mandare avanti la fondazione senza lei al mio fianco che mi motivava sempre, nei momenti migliori e soprattutto in quelli peggiori. Mi mancava essere guardato con orgoglio come fossi l'unico essere sulla terra ad esistere.
Finito il caffè lasciai la tazza nel lavello, accanto al bicchiere da whiskey vuoto lasciato lì dalla sera precedente.
Mi diressi in camera da letto, poi aprii il cassettone mezzo vuoto della biancheria, presi degli asciugamani puliti e andai a farmi una doccia.
Chiusi il box di vetro ed aprii l'acqua, lasciando che il getto caldo scorresse sul mio corpo privo di ogni entusiasmo, sperando che mi rilassasse. Mi insaponai, riempiendo il bagno di fragranza al pino e donando alle mie narici un profumo unicamente mio, totalmente diverso da quello che usava lei, un mix di rosa canina ed erbe aromatiche.
Quando finii mi avvolsi in un asciugamano e frizionai i capelli con un altro più piccolo, poi mi accostai al lavabo e decisi di ritoccare la barba. Era qualche giorno, una settimana probabilmente, che quasi non la curavo e, giustamente, mi facevano notare quanto dovessi mantenere un'immagine ordinata e dignitosa agli occhi dei giornalisti. Altra grossa scocciatura. A volte desideravo disperatamente di aver scelto di fare lo scrittore o il biologo marino, o qualsiasi altro dei miei vecchi progetti, piuttosto che vivere un'altra volta la mia carriera ma, in fondo, poi mi consolavo pensando che ero arrivato a fare del bene, che quello che facevo mi stava davvero a cuore e che era stato possibile realizzare tutto grazie alla strada che avevo scelto. Sospirai e decisi di radermi completamente, non avendo voglia di prendere le misure per accorciarla e basta, volevo concludere in fretta quella routine.
Mi sciacquai il viso e andai a vestirmi. Aprii l'armadio enorme, anch'esso mezzo vuoto.
Indossai un maglione nero e dei jeans scuri, ravvivai i capelli ormai praticamente asciutti, misi a stendere sul termosifone gli asciugamani bagnati e poi andai a cercare portafogli e chiavi dell'auto. Indossai giacca, scarpe e sciarpa, presi un ombrello e mi lasciai l'appartamento alle spalle.

Imperituro.   ||I.S.||   Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora